Campagna elettorale 1996: l’argomento del paragone

In occasione delle elezioni politiche del 21 aprile 1996, emersero fattori di discordanza fra i due maggiori raggruppamenti pure nel tono della campagna. Seconda parte, vai alla prima

La differenza di tono emerge dalle seguenti dichiarazioni (la prima è di Massimo D’Alema e la seconda di Walter Veltroni):

“Siamo tranquilli e non aggressivi come gli altri. Non abbiamo alcun bisogno di alzare la voce, creando risse verbali con gli avversari, per fare presa sugli elettori” (Gente, 4 aprile 1996, p. 8).

“Da un lato ci sono loro che urlano, fanno rissa e demagogia […] Dall’altra parte noi comunichiamo serietà e serenità” (La Repubblica, 4 aprile 1996, p. 4).

In un saggio di Adelino Cattani si legge: “Qualche embrionale ricerca sperimentale in materia sembra comunque indicare che in genere risulta vincitore in un dibattito chi lo conduce scevro da ostilità e che, viceversa, un atteggiamento ostile in una disputa riduce la possibilità di consenso da parte di un uditorio neutro. (Le cose cambiano se invece il pubblico è faziosamente schierato a favore di una delle due parti e nutre sentimenti d’astio nei confronti dell’altra) […] Tale esito si potrebbe spiegare col fatto che un uditorio equidistante interpreta gli attacchi, non giustificati e oltre le righe fissate dalla normale dialettica, come segno di debolezza. L’idea è che, quando ci si sente impotenti di fronte alle tesi o alle obiezioni dell’avversario e quindi mancano gli argomenti, è il cuore, l’impulso, l’istinto, a prendere il sopravvento” (1).

Tutto ciò si registra più in generale in una competizione elettorale. In quella di cui stiamo trattando, Massimo D’Alema, rivolgendosi ai suoi interlocutori nel corso del programma di Rai-Uno Porta a Porta, constatò: “Anche le vostre interruzioni sono un messaggio: trasmettono una grande carica di intolleranza, una cultura lontana dalla democrazia, che invece è esercizio paziente della capacità di ascoltare le ragioni degli altri… Stasera non c’è la squadra che ci fischia, al suo posto ci sono le intemperanze dei leader” (Riportato in La Repubblica, 10 aprile 1996, p. 3).

Walter Veltroni rilevò: “Noi mandiamo messaggi rassicuranti, mentre il Polo crea ansietà” (Corriere della Sera, 14 aprile 1996, p. 3).

Su quest’aspetto Romano Prodi individuò una contrapposizione non semplicemente fra le due coalizioni, ma fra i suoi avversari e gli elettori: “Il Polo è in piena angoscia, vogliono comunicare la loro paura agli italiani… Che invece sono tranquillissimi” (La Repubblica, 15 aprile 1996, p. 4).

Gli esponenti dell’Ulivo, al contrario dei loro rivali, dimostravano di trovarsi ormai, come l’ha definita la semiologa Maria Pia Pozzato, riprendendo una classificazione americana, nella “fase dell’avvenuta sanzione”, caratterizzata da “simulacri di raggiunta competenza, ostentazione di calma e serenità” (2).

Il capo del centrosinistra evidenziò con un linguaggio piuttosto icastico, grazie alle metafore bellico-militari, il divario relativo alle disponibilità finanziarie: “Il Polo attacca con l’aviazione, cioè le TV. Noi abbiamo la fanteria e le truppe par­tigiane. I nostri ragazzi lavorano gratis, vanno in giro a distribuire i ‘santini’ dei candidati senza prendere un soldo. Il Polo usa uomini con il berrettino aziendale pagati per fare un lavoro come un altro. C’è una bella differenza. I nostri sono dei partigiani, gli altri dei mercenari” (Corriere della Sera, 18 aprile 1996, p. 3).

Il passo appena citato pare incentrato sulla struttura narrativa designata da Guido Ferraro con il nome di Davide-e-Golia, la quale “si compone di tre elementi: a) una situazione di disparità quantitativa di forze; b) un valore particolare, non immediatamente visibile, tale che c) la parte apparentemente più debole possa conseguire la vittoria” (3).

Un contrasto molto semplice e dunque facilmente comprensibile e in grado di colpire l’intero pubblico è tra il “nuovo” e il “vecchio”, rappresentati rispettivamente dal proprio schieramento e dagli avversari. L’economista Antonio Martino, consigliere di Silvio Berlusconi, si basa su un siffatto schema nel corso di un dibattito trasmesso a Speciale Tg1, il 26 gennaio 1994. Esprime appunto la “convinzione, diffusa in tutti gli strati politici, in tutti i settori della società, che gran parte delle responsabilità dell’attuale dissesto del Paese siano da addebitare ai mestieranti della politica. E quindi si vuole qualcosa di nuovo, che rompa col vecchio. Non si vuole più un sistema in cui l’interesse generale del paese sia affidato a chi non sapendo fare altro, fa della politica il suo mestiere”.

Nella campagna del 1996, il leader del centrodestra osservò polemicamente: “Credono di poter prendere in giro gli italiani […] Altro che nuovo che avanza: è il vecchio che ritorna, che vuole riprendersi il potere. Sedici partiti diversi, tutti più o meno corresponsabili di quello che è stato il saccheggio della finanza pubblica dall’80 al 93” (Corriere della Sera, 25 marzo 1996, p. 2).

Enrico Caniglia ha constatato che “il discrimine utilizzato non individuava in modo neutrale due posizioni, come nel caso di due progetti politici o ideologici, ma introduceva una sorta di giudizio valutativo […] Tutto stava nella capacità della comunicazione politica di Berlusconi di riuscire a produrre una identificazione tra la propria offerta politica e il ‘nuovo’ e di relegare contemporaneamente gli avversari nel ‘vecchio’, nonostante i palesi sforzi di rinnovamento compiuti da questi ultimi. I dati raccolti da alcune ricerche testimoniano ampiamente la riuscita di questa operazione” (4).

Quando si ricorre a una simile antitesi, è possibile sottintendere uno dei due termini, come nei seguenti estratti dall’elocuzione del candidato premier del Polo:

“Noi invece siamo una forza nuova. Non abbiamo responsabilità per quanto riguarda il passato” (Gente, 18 aprile 1996, p. 7)

“Tutti i voti che noi crediamo appartengano alla nostra coalizione sono […] voti di cittadini che non vogliono restaurare il potere degli apparati e della vecchia politica” (Panorama, 7 marzo 1996, p.19)

“I cittadini che mi danno fiducia col voto […] ritengono che […] sia garanzia di una capacità concreta di governo che funzionari di partito o politici di vecchio stampo, burocrati di professione certamente non hanno” (Famiglia Cristiana, 24 aprile 1996, p. 27)

“Le colpe sono soprattutto degli altri, di chi si è messo insieme, la grande industria assistita, i sindacati, i vecchi uomini politici, tutti lì insieme nella sinistra a difendere il vecchio affinché nulla cambi” (Testa a Testa, Canale 5, 19 aprile 1996).

L’esempio successivo si deve a Massimo D’Alema: “Ora dobbiamo dare il segno di una proposta fortemente innovativa, far capire agli italiani che noi siamo il nuovo” (La Repubblica, 20 marzo 1996, p. 4).

Un fenomeno singolare si verificò in un programma televisivo, dedicato a un confronto tra Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Il secondo si riferiva al primo con il titolo di “Professore”. Viceversa, al leader del centrodestra quello dell’Ulivo – l’ha rilevato Francesco Marsciani – “si rivolge come all’‘Onorevole Berlusconi’, appellativo tipicamente politico che non esalta alcuna qualità sostanziale (come invece era per il ‘Cavaliere’ di due anni prima), ma che al contrario ricorda quei valori negativi che gli italiani avevano imparato ad attribuire ai ‘politici di professione’ (cito da Berlusconi, tutta la precedente campagna elettorale)” (5).

Piuttosto articolato fu un paragone, che Massimo D’Alema attuò fra i due schieramenti: “La differenza fra noi e la destra passa per tre punti. Il primo è l’Europa: questa destra provinciale non ha nessun referente in Europa, salvo Buttiglione che mi pare un po’ poco. Noi invece siamo un pezzo della politica europea. Secondo punto: le regole. Quale concezione dello Stato ha un leader, Berlusconi, che afferma che i magistrati di Milano sono come i terroristi della Uno bianca? Vedo una prospettiva di scontro frontale inquietante, destabilizzante. Terza differenza, loro hanno in mente uno scontro sociale tra il ceto medio e i lavoratori. Hanno detto che vogliono abolire i contratti di lavoro. E il professor Colletti vuole addirittura smantellare lo stato sociale” (La Repubblica, 20 marzo 1996, p. 4).

Riguardo all’ultimo tema, è il caso di fare una digressione per richiamare le alterne vicende dell’impegno del centrodestra su di esso. A tal fine si rivela utile una ricostruzione di Roberto Grandi. Nell’incontro preliminare fra gli esponenti del centrosinistra invitati dalla Rai a Linea Tre del 12 aprile, “[Giovanna] Melandri fu l’unica persona che si preoccupò di trovare un qualche argomento che fosse in grado di mettere in imbarazzo il Polo attraverso una strategia di svelamento. Alle promesse veicolate dal Polo target per target, Melandri avrebbe contrapposto una serie di argomentazioni riassumibili nello slogan: ‘Il Polo vuole lo sfascio dello Stato Sociale’. E quando prese la parola in trasmissione – programma del Polo alla mano per legittimare maggiormente le proprie affermazioni – si capì subito che aveva centrato uno dei nervi scoperti degli avversari, che amavano rappresentarsi come innovatori e riformatori del presente, non come coloro che buttavano a mare lo Stato Sociale, rischiando di risvegliare i timori di quegli elettori che cercavano invece rassicurazioni” (6).

Durante il dibattito con il suo antagonista, nel Testa a Testa di Canale 5 del 19 aprile, Silvio Berlusconi dimostrò di averne risentito, giacché disse: “Lo Stato Sociale che aiuta chi ha veramente bisogno (diverso dallo Stato assistenziale: tutto a troppi) è la conquista più grande di uno stato moderno”. Tuttavia, secondo Roberto Grandi, “la questione non era se questa visione di Stato Sociale fosse o meno presente nel programma del Polo, ma, dal punto di vista dell’efficacia comunicativa, se del concetto di Stato Sociale non se ne fosse già appropriato, in questa campagna elettorale, l’Ulivo. In altre parole, se lo Stato Sociale non fosse già percepito dagli elettori come un concetto coerente all’universo di valori dell’Ulivo ed estraneo a quello del Polo”. E così ha continuato Grandi: “Se, come credevo, gli elettori sentivano lo Stato Sociale più congruente al programma dell’Ulivo e alla storia personale dei suoi esponenti che non al Polo e a Berlusconi, questo tentativo di inglobamento si sarebbe risolto in una perdita di credibilità da parte di un Berlusconi che rischiava di essere considerato come uno che rincorreva i valori di Prodi” (7).

Effettivamente il Professore rispose così a una domanda di un giornalista: “Sa qual è la mia grande soddisfazione? Sentire Berlusconi che un anno dopo copia pari pari le mie parole sullo Stato sociale” (Corriere della Sera, 19 aprile 1996, p. 5).

Come hanno osservato Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “uno degli argomenti di paragone più frequentemente utilizzati è quello fondato sul sacrificio che si è disposti a compiere per ottenere un determinato risultato” (8). In altri termini, secondo Olivier Reboul, “consiste nello stabilire il valore di una cosa – o di una causa – attraverso i sacrifici che si son fatti o che si faranno per essa” (9).

In previsione delle elezioni del 1996, l’allora Presidente del Consiglio Lamberto Dini, auspicando la realizzazione di una formazione di centro, constatò: “Certo, quando si tratta di unire e mettere insieme forze che si sono disperse, si devono fare dei sacrifici e dei compromessi. Questo deve essere fatto, perché ciò che conta è il risultato” (Corriere della Sera, 28 febbraio 1996, p. 3).

Gli uomini politici ricorrono a tale forma di ragionamento anche per sottolineare il prezzo del loro impegno pubblico, ricordando la rinuncia a stare più a lungo con i propri cari. Massimo D’Alema, spesso costretto a trascurare i suoi bambini, confidò amaramente: “Sono un papà che si ferma agli autogrill a comprare giocattoli per farsi perdonare” (Sette, sup­plemento del Corriere della Sera, 28 dicembre 1995, p. 14).

Silvio Berlusconi si rammaricava allo stesso modo: “Io non vado a feste, al ristorante. Lavoro come un forsennato e dedico alla famiglia le rare ore che riesco a recuperare” (Corriere della Sera, 19 marzo 1996, p. 5).

In un’intervista radiofonica così il fondatore di Forza Italia rispose a una domanda sul privato: “In verità resta un tempo ab­bastanza ridotto, il sabato e la domenica; e naturalmente non tutti i sabati e non tutte le domeniche. Per illustrare la situazione le cito il finale di un tema di mia figlia Barbara: ‘Quest’anno è stato un anno di grandi cambiamenti della mia famiglia: mia sorella Eleonora ha cambiato pettinatura, mio fratello Luigi ha cambiato i denti, mio pa­dre è diventato Presidente del Consiglio ed io sono diventata una po­vera orfana’” (L’intervista, trasmessa il 19 settembre 1994, è la prima di una serie di “conversazioni al caminetto”, realizzate da Livio Zanetti per il Giornale Radio di Rai Uno. È riportata in: Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per l’informazione e l’ediotria, “Governo Berlusconi. Sette mesi di attività”, in Vita italiana, n° 8-12, agosto-dicembre 1994).

I segretari di partito e, ancor più, i capi di governo, come erano allora rispettivamente D’Alema e Berlusconi, sono ritenuti dei privilegiati dalla collettività. Pertanto probabilmente si riferiscono al tipo di privazione, del quale abbiamo appena parlato, per contrastare l’insorgere di un’emozione negativa nei loro confronti. Già nell’antichità i maestri di retorica riconoscevano questo pericolo. Per esempio, Marco Antonio, considerato uno dei migliori oratori del suo tempo da Cicerone, che ne riportò le opinioni in una sua opera, sosteneva: “Per ciò che concerne il sentimento dell’invidia, inclinerei a credere che sia di gran lunga il più forte di tutti e che si faccia molto maggiore fatica a reprimerlo che a eccitarlo. Gli uomini provano invidia soprattutto per gli eguali o gli inferiori, quando notano con dispiacere che si sono innalzati troppo in alto, mentre essi sono rimasti in basso; ma sogliono invidiare, e non poco, anche i superiori, specialmente se si vantano eccessivamente e se, per la forza delle loro cariche e della loro fortuna, si credono autorizzati a trasgredire le leggi della comune umanità” (10).

Si attua dunque una relazione fra il logos e il pathos, due strumenti retorici di carattere diverso, razionale e affettivo. Infatti il primo, per Olivier Reboul, è contraddistinto dalla “attitudine a convincere grazie alla sua apparenza di logicità e al fascino del suo stile” e “concerne l’argomentazione propriamente detta del discorso” (11). È costituito quindi da ogni argomento: nella fattispecie quello del sacrificio. Con il secondo, invece, si cerca di creare uno stato d’animo: nel caso specifico di benevolenza per chi si assoggetta a rinunce sul piano personale nello svolgimento di una funzione politica.

NOTE

(*) La prima parte è stata pubblicata il 19 luglio 2019.

(1) Adelino Cattani, Botta e risposta. L’arte della replica, Il Mulino, 2001, pp. 54-55.

(2) Maria Pia Pozzato, Leader, oracoli, assassini. Analisi semiotica dell’informazione, Carocci, 2004, p. 134.

(3) Guido Ferraro, Strategie comunicative e codici di massa, Loescher, 1981, p. 94.

(4) Enrico Caniglia, Berlusconi, Perot e Collor come political outsider. Media, marketing e sondaggi nella costruzione del consenso politico, Rubbettino, 2001, pp. 154-155.

(5) Francesco Marsciani, “Tra Berlusconi e Prodi. Giochi di credibilità”, in Marino Livolsi, Ugo Volli (a cura di), Il televoto. La campagna elettorale in televisione, Franco Angeli, 1997, p. 204.

(6) Roberto Grandi, Prodi. Una campagna lunga un anno, Lupetti, 1996, p. 96.

(7) Roberto Grandi, op. cit., pp. 103-104.

(8) Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 269.

(9) Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, p. 223.

(10) M. Tullio Cicerone, Dell’oratore, in Opere retoriche, a cura di G. Norcio, Utet, 1976. La tesi di Marco Antonio si trova nel cap. 52 del libro II (a p. 355).

(11) Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, pp. 36, 70.