La campagna per le elezioni politiche del 21 aprile 1996 fu molto combattuta e contraddistinta dalla personalizzazione, che, a differenza della precedente competizione elettorale del 27 e 28 marzo 1994, interessò non solo il centro-destra, ma anche il centro-sinistra, guidati rispettivamente da Silvio Berlusconi e Romano Prodi.
L’individualizzazione passò pure attraverso un tipo fondamentale di argomentazione, quella che consiste, per citare Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, nel “ricorrere a paragoni, nei quali diversi oggetti siano posti a confronto per essere valutati l’uno in rapporto all’altro” (1).
Per esempio, Berlusconi era più incline ad apparire sul piccolo schermo, anziché a entrare in contatto direttamente con i votanti. Prodi ne approfittò per sottolineare un elemento distintivo del suo temperamento, indubbiamente più proficuo per il governo del Paese:
“Preferisco andare in mezzo alla gente, per capire i veri problemi. Insomma io non sono schiavo della televisione” (Corriere della Sera, 10 aprile 1996, p. 5)
“Per un anno, con il mio pullman […] ne ho potuto capire e imparare tante, di cose. Non è mica come farsi solo quei dibattiti in tv che non servono a niente. Sono andato in mezzo alla gente per affrontare i problemi, non la realtà virtuale” (Corriere della Sera, 19 aprile 1996, p. 5)
Rilevando un ulteriore tratto del suo carattere, la fedeltà alla parola data, così si giustificò per la mancata partecipazione a un incontro con il suo antagonista nel programma “Porta a Porta”: “Avevo già gli impegni con i miei elettori, ero in Piemonte nel mio giro in pullman. Non manco alle promesse per fare un piacere a Vespa” (Corriere della Sera, 10 aprile 1996, p. 5).
Inoltre estese tale attitudine in generale al suo schieramento: “Abbiamo visitato imprese e opere di solidarietà, abbiamo incontrato donne, uomini, giovani e anziani, lavoratori e disoccupati. Per questo riusciamo sempre più a capire i problemi dell’Italia” (ROBERTO BERTINETTI, ROBERTO WEBER, “Parole in cerca di consenso. Un confronto fra Prodi e Berlusconi”, in Il Mulino, n° 5, 1995).
Walter Veltroni fece la stessa cosa: “Noi abbiamo macinato migliaia di chilometri in campagna elettorale, abbiamo conosciuto l’Italia che soffre. Mentre la destra ha impostato tutto su una campagna a ‘26 pollici’” (Corriere della Sera, 19 aprile 1996, p. 4).
I due esponenti dell’Ulivo adottarono uno stile di comunicazione, che possiamo definire “attento”, in quanto agivano come riceventi di un messaggio (allo scopo di “capire”, “imparare”, “conoscere”), in opposizione alla loro condizione più consueta di emittenti. Quando si verifica una simile situazione, sembra che si voglia ridurre l’asimmetria del rapporto e mettere in rilievo una propensione all’ascolto, un orientamento verso gli altri. Ciò dovrebbe costituire una prerogativa dell’attività politica, la quale si configura come una relazione d’aiuto (2).
I passi estrapolati dalla produzione discorsiva di Romano Prodi sono funzionali alla formazione di una ben precisa identità. Nei termini della retorica, si ricorre allo strumento di ordine affettivo dell’ethos, ossia “il carattere che deve assumere l’oratore per accattivarsi l’attenzione e guadagnarsi la fiducia dell’uditorio”. Infatti “quali che siano i suoi argomenti logici, essi non hanno alcun potere senza questa fiducia” (3). Nel caso specifico il parlante, attraverso il paragone (quantunque sottinteso), si confronta con il suo concorrente nella corsa a Palazzo Chigi.
Ecco ancora delle occorrenze che si devono all’aspirante premier del centro-sinistra:
“Replicando a Berlusconi, davanti alla platea dei commercianti milanesi, mi sono posto nella posizione diametralmente opposta alla sua. Ho detto, davanti ad una platea che si aspettava un atteggiamento particolare, che il mio intento era quello di usare di fronte a loro le medesime parole che avrei detto a tutti i 57 milioni di italiani. Cosa volevo dire? Che è da irresponsabili girare per l’Italia facendo promesse grandi e diverse di fronte ad ogni platea, sapendo che queste promesse non hanno alcuna possibilità di essere mantenute tutte insieme. Sapendo, addirittura, che queste promesse sono tra di loro in contraddizione. Non si possono promettere detassazioni a tutti e su tutto. Non si può al Sud promettere sicurezza per ogni posto di lavoro pubblico e al Nord bollare come ‘improduttivi’ sette dipendenti pubblici su dieci” (La Repubblica, 28 marzo 1996, pp. 1-2)
“Sono orgoglioso delle mie privatizzazioni [realizzate da presidente dell’IRI]. Solo chi non decide niente, come ha fatto Berlusconi in materia, non sbaglia mai. Ma così si rovina il Paese” (Corriere della Sera, 25 febbraio 1996, p. 5)
“Nella mia vita ho sempre cercato di tenere presente l’ispirazione cristiana sia nelle scelte personali che in quelle pubbliche. Per questo motivo mi costa molto e non lo ritengo del tutto legittimo usare questi temi come strumento di marketing politico. D’altra parte i cattolici italiani sono maturi per giudicare i programmi politici e gli stili di vita delle persone” (Corriere della Sera, 9 aprile 1996, p. 3)
“Non si va a votare per scegliere un attore, ma l’uomo giusto per guidare l’Italia. Berlusconi non è certo un modello rassicurante” (Corriere della Sera, 10 aprile 1996, p. 5)
“Un vero leader deve essere serio, mica fare spettacolo. Io sono ruspante, genuino. Non faccio le mossette, i sorrisini. Non mi metto a gridare come un matto. Non mi lascio tingere la faccia con il cerone, perché non sono un personaggio finto, tipo Beautiful” (Corriere della Sera, 11 aprile 1996, p. 4)
(rivolgendosi direttamente al suo antagonista per l’elezione alla Presidenza del Consiglio, nel corso del programma Linea Tre, trasmesso dalla Rai) “Io ho risanato imprese al servizio del Paese. Lei ha governato il Paese al servizio della sua azienda” (Riportato in Corriere della Sera, 13 aprile 1996, p. 3).
Nella fattispecie la differenziazione, che ovviamente è espressa principalmente sul piano semantico, viene rafforzata a livello sintattico grazie al chiasmo, consistente nella disposizione incrociata di termini collegati fra loro (“imprese”, “Paese” e “Paese”, “azienda”) (4).
Inoltre, distinguendo il proprio comportamento da quello di un avversario in due situazioni analoghe, rilevò: “Io continuo a credere nel confronto civile. Avevo delle cose da dire. Mi hanno chiuso la bocca. Pazienza, parlerò quando me lo lasceranno fare. A Fini voglio ricordare che il mio stile è diverso. Una volta, a Palermo, tra la folla c’era chi pretendeva che Leoluca Orlando non prendesse la parola. Sono andato subito al microfono e li ho bloccati: ‘Se non fate parlare lui, me ne vado io’. Così si comporta un democratico. Fini dovrebbe vergognarsi, perché non ha mosso un dito per difendere il mio diritto di parola” (Corriere della Sera, 5 marzo 1996, p. 5).
Come ha raccontato Roberto Grandi, “il 4 marzo fu giorno di protesta e di serrata per i commercianti torinesi. L’assemblea al cinema Lux si trasformò presto in un rodeo il cui vincitore fu Gianfranco Fini che, unico tra gli oratori, riuscì a domare la platea, peraltro a lui molto vicina. Prodi tentò per cinque lunghi minuti di farsi sentire, poi, subissato di fischi, raccolse i suoi foglietti e se ne andò” (5).
Una notevole divergenza nel modo di porsi in generale verso l’amministrazione dello Stato emerse nella discussione messa in onda da Canale 5, due giorni prima del voto. Roberto Grandi ha osservato: “Prodi ogni volta che prendeva la parola tendeva a dimostrare che ciò che Berlusconi diceva era accettabile solo da chi avesse lo sguardo rivolto al passato, mentre lui era interessato al futuro” (6).
Da un’analisi di Francesco Marsciani risulta che “Berlusconi tenta costantemente di ricondurre il dibattito alla sua interpretazione di una dura realtà, mentre Prodi sembra sempre dare per scontata la realtà per costruire scenari ideali di trasformazione”. Egli “non fa altro, e lo dice spesso esplicitamente, che guardare avanti, superare gli ostacoli, volgersi al futuro, accusando Berlusconi di voler guardare indietro, di farsi bloccare dalla paura”. Nell’appello agli elettori, al termine del programma televisivo, il leader dell’Ulivo “fa riferimento ai grandi compiti che attendono l’Italia in vista dell’ingresso nel nuovo millennio […] Si descrive, dunque, come qualcuno che vuole vincere […] Dichiara di mettere a disposizione tutte le proprie energie e le proprie capacità per l’interesse collettivo”. Al contrario, il discorso del capo del centro-destra “sembra sotto tono, senza alcuna carica propositiva”. Infatti, “Prodi alza il tiro delle immagini evocate dalle sue parole”, invece “Berlusconi evoca immagini di difficoltà, immagini apprensive” (7).
L’aspirante premier del Polo così si paragonò agli avversari indistintamente:
“Cosa diceva una volta Andreotti? Che non c’erano giganti in giro. Beh, anch’io ho fatto un pensierino come il suo. Non ho ancora incontrato, nel teatrino della politica, gente che mi abbia fatto pensare di essere inutile” (La Repubblica, 25 febbraio 1996, p. 2)
“Sono sempre più convinto che uno che lavora serva molto più di tanti che chiacchierano” (Ibidem) (8)
“I cittadini che mi danno fiducia col voto […] ritengono che, […] per essere io riuscito, partendo da zero, a costruire il secondo gruppo privato italiano, a creare nuove aziende e migliaia di nuovi posti di lavoro, a dare a tutti gli italiani un servizio in più costringendo anche la Rai a migliorarsi, sia garanzia di una capacità concreta di governo che funzionari di partito o politici di vecchio stampo, burocrati di professione certamente non hanno” (Famiglia Cristiana, 24 aprile 1996, p. 27).
Nel passo seguente, invece, attuò un confronto con un rivale in particolare: “Quando io creavo la mia attività imprenditrice, D’Alema se ne stava fuori dalle aziende comandando i picchetti per non farci entrare gli operai” (Corriere della Sera, 14 aprile 1996, p. 2).
La differenza fra gli esponenti di schieramenti contrapposti emerge direttamente attraverso i loro comportamenti, che, nei momenti in cui sono al centro dell’attenzione, non sfuggono ai mass media. Ecco una cronaca di Barbara Palombelli: “L’ultimo duello della primavera 1996 comincia con un match automobilistico. Sono le diciassette e venti del pomeriggio di ieri, davanti agli studi della Fininvest-Mediaset al Celio. Una trentina di giornalisti in attesa degli sfidanti che – fra poco – registreranno il testa a testa finale. E l’arrivo delle squadre fa parte del grande spettacolo che sta per incominciare. Per primo, arriva il padrone di casa: Silvio Berlusconi. È un’entrata da star. Un lungo corteo di sette automobili, compresa la scorta, fa il suo ingresso nel cancello fra lo stupore e l’imbarazzo dei giornalisti e dei fotografi presenti […] Qualcuno conta e riconta: ‘no… sono otto, c’è anche una Mercedes, una di quelle che costano un patrimonio…’ Passano pochi minuti, arriva un taxi d’annata, una Fiat Regata-week end vecchiotta. Sigla: Polonia 16. Scendono il signor Silvio Sircana (portavoce) e Romano Prodi. Costo della corsa: 20 mila [lire, ovviamente], nome del tassista: Paolo. È il suo attimo di celebrità, racconta: ci hanno superato per strada… quelli di Berlusconi. Il corteo e il taxi, due modi di arrivare” (La Repubblica, 20 aprile 1996, p. 2).
E – non si può evitare di aggiungere – originalità e normalità, due modi di apparire e di essere. Già in altre occasioni, durante la campagna elettorale, il leader dell’Ulivo aveva manifestato negli spostamenti la preferenza per il mezzo pubblico. Così, infatti, si riferisce la sua comparsa alla Rai per intervenire a una trasmissione televisiva: “Né sirene, né auto blu. Il professore sbarca da un taxi giallo, in compagnia dei suoi collaboratori. Guadagnano l’ingresso veloci. Al portavoce di Prodi, Silvio Sircana, viene il dubbio: ‘Qualcuno l’ha pagato il taxi?’. Si, il taxi è stato regolarmente pagato” (La Repubblica, 13 aprile 1996, p. 2).
Al di là della comparazione con i concorrenti, i partecipanti alle elezioni del 21 aprile 1996 ricorsero comunque allo strumento persuasivo dell’ethos per evidenziare i requisiti, che si pensava l’elettorato apprezzasse maggiormente. Così il candidato del centro-sinistra alla Presidenza del Consiglio sottolineò la sua serietà, intesa specialmente come senso di responsabilità: “Quando parlo di fronte ad una assemblea che porta avanti forti e legittimi interessi di categoria, preferisco correre il rischio di essere frainteso o fischiato, ma parlo sempre tenendo presente la verità di quello che dico e la compatibilità delle mie affermazioni rispetto ai conti dello Stato ed agli interessi di tutto il Paese” (La Repubblica, 28 marzo 1996, p. 2).
La medesima dote si attribuiva Massimo D’Alema: “Io ho un limite: non riesco ad ingannare la gente. E dunque alla demagogia rispondo con le proposte” (La Repubblica, 20 marzo 1996, p. 4).
Tale dichiarazione contiene un’antifrasi, la figura retorica consistente nel dire una cosa per far intendere esattamente l’opposto. In effetti si definisce “limite” ciò che in realtà è una virtù e pertanto si trasmette un’immagine di modestia. Ma prevalentemente il parlante accentua l’ironia nei riguardi degli antagonisti, giacché, prima di accusarli apertamente di voler ottenere il consenso popolare con promesse di miglioramenti difficilmente realizzabili, sostiene implicitamente che per loro “riuscire a ingannare la gente” è un pregio e non un difetto.
Per un uomo politico, spesso tenuto a dibattere con gli avversari, è importante pure la buona creanza. Prodi la individuò fra gli elementi del proprio temperamento:
“È solo un fatto di educazione: non mi piace interrompere chi parla, non lo faccio nemmeno con gli studenti” (Corriere della Sera, 14 aprile 1996, p. 3). “Quando si arriva quasi alla rissa, con tutti che cercano di parlare, non si capisce più niente. Le ammucchiate non mi piacciono” (ibidem).
Ulteriori qualità, da lui stesso rimarcate, sono
la concretezza: “Io voglio parlare di programmi, ma se c’è bisogno so anche essere cattivo” (La Repubblica, 16 aprile 1996, p. 2);
la probità: “Fino ad oggi sono stato onesto, credo di averlo dimostrato con il mio modo di comportarmi tutti i giorni e per lo stile di vita della mia famiglia” (Corriere della Sera, 19 aprile 1996, p. 5). Una volta disse che, non essendoci motivo di definirlo “ladro” o “mafioso” e così via, i rivali si dovettero accontentare di soprannominarlo “faccia da mortadella”;
la discrezione: “Forse è difficile capire come sono fatto veramente. Proprio per il mio pudore” (Corriere della Sera, 19 aprile 1996, p. 5). “Ho sempre cercato di vivere il mio cattolicesimo in modo coerente e nel profondo della coscienza. C’è un pudore…” (Famiglia Cristiana, 24 aprile 1996, p. 26);
la tolleranza: “Incasso tutto, sopporto moltissimo. Una volta mi costava sofferenza, adesso lo faccio con serenità. La politica mi ha indurito la pelle” (Corriere della Sera, 19 aprile 1996, p. 5), ma con un’eccezione giustificata da un vero e proprio mandato fiduciario collettivo: “Fino a quando venivo offeso io, portavo pazienza. Poi ho capito che non erano insulti a me. La gente mi diceva che dovevo reagire, nelle parrocchie si lamentavano: ‘Il Cavaliere pretende di rappresentarci, invece tra noi e lui non c’è niente in comune’. Insomma, chiedeva di essere difesa e ho sentito l’obbligo morale di reagire, fino a fare violenza al mio carattere” (ibidem).
In Italia, nella campagna del 1994, Silvio Berlusconi fu il precursore della personalizzazione della politica o, nei termini della retorica, del ricorso allo strumento di ordine affettivo dell’ethos. Ancor più ciò si verificò nel 1996, quando dovette affrontare un antagonista, che era in grado di sconfiggerlo, come effettivamente avvenne (e non solo questa volta, ma ancora nelle elezioni del 9 e 10 aprile 2006). Ecco alcuni passi in cui, nel tentativo di ispirare fiducia, evidenziava aspetti della sua indole:
“Io non ho per natura un temperamento rigido […] Non amo le meschinità, sono ottimista” (Panorama, 7 marzo 1996, p. 19)
“Io non possiedo il know how dell’odio e del rancore. Dalla vita ho avuto tanto, sono dunque disposto a lavorare per puro spirito di servizio. Io sono tollerante perché questa è la mia natura” (Corriere della Sera, 24 marzo 1996, p. 2)
“Ho della politica una visione che è antitetica allo scontro fra governo e opposizione, per me prevalgono gli interessi del Paese e se noi saremo opposizione non potremo mai prescindere dagli interessi del Paese” (Corriere della Sera, 19 aprile 1996, p. 5).
L’ultimo estratto contiene un errore di comunicazione (perfino i grandi comunicatori possono sbagliare). È possibile sostenerlo sulla base delle teorie di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca. Essi includono l’ipotesi fra le figure della presenza, che “hanno per effetto di rendere attuale alla coscienza l’oggetto del discorso” (9).
Perciò è necessario evitare i ragionamenti ipotetici su eventi negativi, come un insuccesso elettorale, in riferimento alla propria coalizione. Una conferma viene da un altro caso, esposto da Marco Mazzoni: “Il 24 marzo 2005, leggendo il giornale, la nostra attenzione è stata catturata in particolare da un titolo che, alla vigilia delle elezioni regionali, riportava una dichiarazione dell’allora governatore del Lazio Francesco Storace […]: ‘Se perdiamo nella mia regione, l’anno prossimo perdiamo il governo’. Una dichiarazione del genere […] ha, a nostro avviso, contribuito a trasmettere la percezione di uno schieramento in affanno, con una grande paura della sconfitta. E soprattutto […] ha prodotto un clima di opinione di sfiducia nelle possibilità di vittoria dello schieramento di centrodestra” (10).
Note
(1) Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 262.
(2) Nel loro Sapersi esprimere. La competenza comunicativa (Giuffrè, 1991), alle pp. 130-131, Luisella De Cataldo Neuburger e Guglielmo Gulotta riportano una tassonomia degli stili di comunicazione, dovuta a R. Norton (Communicator style: theory, applications and measures, 1983), che ne comprende uno definito “attento”.
(3) Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, pp. 21 e 69.
(4) Su tale figura retorica cfr.: “Il terremoto, Pietro Grasso e il chiasmo”, pubblicato nel nostro sito l’11 gennaio 2017.
(5) Roberto Grandi, Prodi. Una campagna lunga un anno, Lupetti, 1996, p. 62.
(6) Roberto Grandi, op. cit., p. 117.
(7) Francesco Marsciani, “Tra Berlusconi e Prodi. Giochi di credibilità”, in Marino Livolsi, Ugo Volli (a cura di), Il televoto. La campagna elettorale in televisione, Franco Angeli, 1997, pp. 201, 205-206.
(8) Su questo tipo di contrasto cfr.: “Il tópos dell’opposizione tra parole e fatti nel discorso politico”, pubblicato nel nostro sito il 16 marzo 2017.
(9) Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit., p. 189.
(10) Marco Mazzoni, “‘Chi vince e chi perde’”. Un modo per influenzare il clima di opinione”, in Comunicazione Politica, 2006, VII, 2, p. 311-328.