di Giorgio Matza (prima parte)
Nel suo primo discorso dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali, Hillary Clinton, esortando i suoi sostenitori a non lasciarsi andare allo scoraggiamento, si è ispirata – lo abbiamo visto in un precedente articolo – all’argomentazione fondata sul caso particolare, più precisamente all’argomento dell’esempio (1).
Come ha ricordato Olivier Reboul, <secondo Aristotele, ci sono solo due tipi, e due soltanto, di strutture argomentative: l’esempio, che va dal particolare al generale, dal fatto alla regola, ed è dunque un’induzione; e l’entimema, che va dal generale al particolare, e che è dunque una deduzione> (2).
Ernst Robert Curtius ha osservato che <gli exempla contenuti negli autori antichi e riferiti alle virtù ed alle debolezze umane servirono, nel Medio Evo, come elementi di edificazione. Exemplum (paradeigma) è un termine tecnico della retorica classica a partire da Aristotele e significa “narrazione addotta come dimostrazione”>, mentre con l’espressione “figura-esemplare” (eikón, imago) si indica <l’incarnazione di una certa qualità in un personaggio> (3).
Nel romanzo I Promessi Sposi l’exemplum è presente nel racconto di fra Galdino, riportato nel capitolo III e intitolato dai commentatori “Il miracolo delle noci”. Infatti, per mezzo di esso, si coglie un significato essenziale, il lettore è guidato alla comprensione del motivo conduttore dell’opera: il trionfo del bene sul male, la vittoria della giustizia sulla violenza.
Tuttavia tale forma di ragionamento, oltre che nell’oratoria religiosa, è frequente in quella politica. Così Ronald Reagan <si affidava alla drammatizzazione e all’aneddoto. I suoi discorsi persuadevano creando immagini visive, personalizzando i temi centrali della sua amministrazione e coinvolgendoci in una narrazione drammatica della vita americana> (4).
Come si può leggere in un articolo pubblicato in un mensile, <nel gennaio 1985, il presidente degli Stati Uniti pronuncia, davanti alle due camere del Congresso, il suo discorso sullo stato dell’Unione. “Due secoli di storia americana dovrebbero averci insegnato che niente è impossibile. Dieci anni fa, una ragazza ha lasciato il Vietnam con la sua famiglia. Sono venuti negli Stati Uniti senza bagagli e senza sapere una parola di inglese. La ragazza ha lavorato sodo e alla fine delle secondarie era tra le prime della sua classe. Nel maggio di quest’anno, esattamente dieci anni dopo aver lasciato il Vietnam, prenderà il diploma dell’Accademia militare di West Point. Mi sono detto che vi avrebbe fatto piacere incontrare questa eroina americana, il cui nome è Jean Nguyen”. E l’eroina americana si alza, per essere applaudita dagli organi istituzionali. Reagan ne approfitta per raccontare un’altra storia, altrettanto edificante, prima di svelarne la morale: “La storia delle vostre vite ci ricorda che uno dei nostri slogan più antichi resta sempre di grande attualità: tutto è possibile in America se abbiamo fede, volontà e forza d’animo. Ancora una volta, la storia ci chiede di mettere la nostra forza al servizio del bene nel mondo”> (5).
In una precedente occasione, nell’Inaugual Address del 1981, il presidente americano aveva affermato: <Chi dice che viviamo in un’epoca senza eroi semplicemente non sa dove guardare. Potete vedere eroi ogni giorno entrare e uscire dai cancelli delle fabbriche. Altri (…) producono abbastanza cibo da alimentare noi e poi il mondo (…) Ci sono imprenditori che credono in sé stessi e credono in un’idea che crea nuovi lavori, nuovo benessere e opportunità> (6).
Nel Discorso sullo stato dell’Unione, tenuto nel gennaio del 2007, George W. Bush ha sostenuto: <La più grande forza che abbiamo è la bontà eroica, il coraggio e lo spirito di sacrificio del popolo americano. Rendersene conto non è difficile, basta sapere dove cercare. E questa sera non dovete fare altro che guardare sulla tribuna. Dikembe Mutombo è cresciuto in Africa, in condizioni di estrema povertà e malattie. È venuto all’università di Georgetown con una borsa di studio per laurearsi in medicina, ma l’allenatore John Thompson gli ha dato un’occhiata e ha avuto un’altra idea [risate]. Dikembe è diventato una delle star della NBA [il campionato di basket americano] e un cittadino americano. Non ha mai dimenticato la terra dove è nato, né l’obbligo di condividere la sua fortuna con gli altri. Ha fatto costruire un ospedale nuovo di zecca nella sua città di origine. Un suo amico ha detto di lui: “Mutombo ritiene che Dio gli abbia dato la possibilità di fare grandi cose”. E noi siamo fieri di chiamare questo figlio del Congo cittadino degli Stati Uniti>.
Come ha rilevato Christian Salmon, <George W. Bush prosegue raccontando altre storie, come quella di Julie Aigner-Clark, che dopo la nascita di sua figlia ha creato la Baby Einstein Company, una società che produce video educativi destinati ai neonati, le cui vendite sono salite a 20 milioni di dollari in cinque anni prima di realizzare, a fortuna fatta, film contro lo sfruttamento dei bambini […] O la storia di Wesley Autrey, che aspettava la metropolitana con le sue due figlie a Harlem quando ha visto un uomo cadere all’arrivo del treno: “È saltato sui binari, ha gettato l’uomo al suolo e l’ha trattenuto disteso mentre il treno passava proprio sopra alle loro teste. Che cosa magnifica, un paese che produce un uomo umile e coraggioso come Wesley Autrey!”. E infine la storia di Tommy Rieman, un ragazzo originario di Independance nel Kentucky, che si è arruolato nell’esercito americano, ferito in Irak, medaglia di guerra per il suo coraggio […] La morale di queste storie viene formulata subito in questi termini: “Di fronte a tali esempi di coraggio e di compassione, signore e signori, noi vediamo lo spirito e il carattere dell’America – e questi esempi non sono rari”> (7).
Numerosi exempla e figure-esemplari, relativamente a quello che si potrebbe definire “eroismo quotidiano della gente comune”, si trovano nell’autobiografia di Bill Clinton:
<Verso la fine di quasi tutte le mie campagne presenziai al turno di mattina della fabbrica della Campebell’s Soup di Fayetteville […] Nel 1982 faceva freddo e pioveva e quando cominciai a stringere mani era ancora buio […] Non dimenticherò mai la scena di un operaio che accompagnava sua moglie. Quando si aprì la portiera del pickup, vidi che seduti in mezzo a loro c’erano tre bambini. L’uomo mi disse che dovevano svegliarli alle quattro meno un quarto ogni mattina. Dopo aver accompagnato sua moglie al lavoro, li lasciava da una baby-sitter che li avrebbe accompagnati a scuola, perché lui doveva andare a lavorare alle sette. È facile per un politico, in questo mondo dominato dai massmedia, ridurre le elezioni alla raccolta dei fondi, ai raduni, alla pubblicità e a un paio di dibattiti. Tutto ciò può essere sufficiente perché gli elettori facciano una scelta intelligente, ma i candidati in questo modo non si rendono conto del mondo reale, comprese le difficoltà di gente che non ce la fa ad andare avanti e dà il meglio di sé per amore dei figli>
<Fui particolarmente commosso dalla storia di Ron Machos, il cui figlio Ronnie era nato con un problema cardiaco. Aveva perso il lavoro a causa della recessione e non riusciva a trovarne un altro con un’assicurazione medica che coprisse le ingenti spese che doveva affrontare>
<Alla fine del comizio scesi dal palco e cominciai a parlare con la gente. Rimasi sorpreso quando vidi una donna bianca che portava una spilla a favore dell’aborto e teneva in braccio una bambina nera. Quando le domandai di chi fosse figlia, sorrise radiosa e disse: “È mia. Si chiama Jamiya”. La donna mi raccontò che la bambina era nata sieropositiva in Florida e lei l’aveva adottata, malgrado fosse divorziata e lottasse per crescere da sola due figli. Non dimenticherò mai quella donna, con in braccio Jamiya, che proclamava orgogliosamente: “È mia”. Anche lei era a favore della vita>
<Il momento clou della serata fu verso la conclusione del discorso [sullo stato dell’Unione del 23 gennaio 1996], quando di solito presentavo le persone sedute vicino a Hillary. Menzionai per primo Richard Dean, quarantanovenne veterano del Vietnam, per ventidue anni dipendente degli enti previdenziali. Quando dissi al Congresso che si trovava nel Murrah Building di Oklahoma City al momento dell’attentato e che aveva rischiato la vita ritornando per quattro volte tra le macerie e salvando tre donne, a Dean fu tributata una solenne ovazione generale, repubblicani in testa. Poi, l’affondo. Mentre l’applauso si stava smorzando, aggiunsi: “Ma la storia di Richard Dean non finisce qui. Lo scorso novembre, la serrata della pubblica amministrazione lo ha costretto a lasciare il posto di lavoro. E quando la cosa si è ripetuta, lui ha continuato ad aiutare i beneficiari della previdenza sociale, ma senza ricevere alcun compenso. A nome di Richard Dean vi lancio la sfida: il blocco dei servizi governativi non deve ripetersi mai più”. Questa volta l’applauso partì dai democratici, in visibilio. I repubblicani, accorgendosi di essere caduti in trappola, apparivano scuri in volto. Non mi sarei mai più dovuto preoccupare che si verificasse una terza serrata della pubblica amministrazione: le conseguenze che si sarebbero potute verificare ora avevano il volto di un eroe>
<In Ruanda […] avrei incontrato […] i leader del paese e i sopravvissuti al genocidio […] L’ultima a parlare fu una donna dall’aria distinta. I suoi vicini hutu, i cui bambini avevano giocato con i suoi per anni, avevano riferito a killer scatenati che la sua famiglia apparteneva all’etnia tutsi. Era stata gravemente ferita con un machete e ritenuta morta. Ridestatasi in un lago di sangue, aveva trovato suo marito e i suoi sei figli morti accanto a lei. Disse a me e a Hillary di aver gridato a Dio la sua disperazione per essere sopravvissuta e di aver poi capito che “la mia vita deve essere stata risparmiata per qualche motivo e sicuramente non per qualcosa di così meschino come la vendetta. Adesso faccio il possibile per aiutare il paese a ricominciare da capo”>.
Al centro del seguente estratto non è un uomo comune, ma uno statista di fama mondiale, simbolo di grandissima tenacia:
<L’11 febbraio [1990] assistetti a un’eccellente dimostrazione del potere della perseveranza. Quella domenica, di prima mattina, Hillary e io svegliammo Chelsea e scendemmo con lei nella cucina della residenza del governatore per assistere a quello che – le spiegammo – sarebbe stato uno degli avvenimenti più importanti di cui sarebbe stata testimone in vita sua. Poi accendemmo il televisore per vedere Nelson Mandela mentre compiva gli ultimi passi del suo lungo cammino verso la libertà. Per ventisette anni – anni di prigione e di abusi – Mandela aveva resistito e trionfato per mettere fine all’apartheid, liberare la propria mente e il proprio cuore dall’odio ed essere d’ispirazione al mondo> (8).
Anche Barack Obama è ricorso all’exemplum e alla figura-esemplare, in relazione all’“eroismo quotidiano della gente comune”. In occasione delle elezioni del 2008, in un discorso pronunciato a Salem, Oregon, il 21 marzo di quell’anno, ha ricordato: <C’è una vicenda in particolare che vorrei consegnare a voi oggi […] C’è una ragazza bianca di ventitré anni che si chiama Ashley Baia e che ha partecipato all’organizzazione della nostra campagna […] Si è impegnata in una comunità in maggioranza afroamericana, e un giorno si è ritrovata a un dibattito in cui ognuno raccontava a turno la propria storia e il motivo per cui si trovava lì. Ashley ha raccontato allora che quando aveva nove anni la madre aveva avuto un cancro. Essendo costretta ad assentarsi spesso dal lavoro, era stata licenziata e aveva perso l’assistenza sanitaria. Così erano state costrette a chiedere il sussidio di povertà, ed era stato allora che Ashley aveva deciso che doveva fare qualcosa per aiutare la mamma […] E a quel dibattito Ashley ha detto a tutti i partecipanti che la ragione per cui si era unita alla nostra campagna era aiutare i milioni di altri figli che nel paese vogliono e devono aiutare a loro volta i genitori. Ora, Ashley avrebbe potuto fare una scelta diversa. Qualcuno le avrà senz’altro detto che la causa dei problemi di sua madre erano i neri tutelati dall’assistenza sociale e troppo fannulloni per lavorare, oppure gli ispanici che entravano nel nostro paese illegalmente. Ma Ashley non ci ha creduto. Si è messa a cercare degli alleati per la sua battaglia contro l’ingiustizia. Comunque sia, una volta raccontata la sua storia, Ashley ha fatto il giro della sala chiedendo a ciascuno perché avesse deciso di appoggiare questa campagna. Ognuno aveva la sua storia e motivazioni diverse. Molti indicavano una causa specifica. E alla fine è toccato a un anziano nero che era rimasto seduto in silenzio per tutto il tempo. E così Ashley gli chiede perché si trova lì. E lui non indica una causa specifica. Non parla dell’assistenza sanitaria o dell’economia. Non parla di istruzione o di guerra. Non dice di essere lì per Barack Obama. Dice semplicemente a ciascuno dei presenti: “Sono qui per Ashley”. “Sono qui per Ashley”. Di per sé, quell’unica occasione di riconoscimento reciproco tra la ragazza bianca e l’anziano nero non basta. Non basta a garantire l’assistenza sanitaria ai malati, il lavoro ai disoccupati, o istruzione ai bambini. Ma è da lì che si parte. È da lì che la nostra Unione trae la sua forza> (9).
E nell’intervento fatto a Chicago, Illinois, tra il 4 e il 5 novembre 2008, Barack Obama ha affermato, per dimostrare che il cambiamento è sempre possibile: <Questa notte io penso, tra le tante, a una storia in particolare. È quella di una donna che è andata a votare ad Atlanta […] Ann Nixon Cooper ha 106 anni […] Questa notte penso a tutto quello che ha visto nel corso del secolo trascorso in America: penso all’angoscia e alla speranza, alla lotta e al progresso, ai momenti in cui ci dicevano che non potevamo farcela e alle persone che, al contrario, hanno tirato avanti facendo appello proprio a quella professione di fede americana che si fonda su questa convinzione. Yes, we can! In un’epoca in cui la voce delle donne veniva messa a tacere e le loro speranze venivano ignorate, Ann Nixon Cooper ha visto le donne battersi per i propri diritti, per far sentire la propria voce e ottenere il voto. Yes, we can! Quando c’era solo disperazione e tutto il Paese era attraversato dalla depressione, ha visto una nazione sconfiggere la sua stessa paura grazie al New Deal, nuovi posti di lavoro e un nuovo sentimento per un obiettivo comune. Yes, we can! Quando sganciavano bombe sui nostri porti e la tirannia minacciava il mondo, Ann Nixon Cooper è stata lì a testimoniare come un’intera generazione sia stata capace di ergersi a difesa della sua grandezza e salvare la democrazia. Yes, we can! […] Lei, attraverso i momenti migliori e le ore più cupe dei suoi 106 anni vissuti in America, sa che l’America può cambiare. Yes, we can!> (10).
I progressi che si sono registrati negli Stati Uniti, non sono semplicemente ricordati dal parlante, ma narrati dal punto di vista di un’altra persona. Si ricorre dunque ad un argomento (definito luogo comune per la sua presenza nella memoria collettiva e per il suo frequente impiego): più precisamente, quello della testimonianza oculare (“Ann Nixon Cooper ha visto…”, “È stata lì a testimoniare…”), allo scopo di rendere più credibile il messaggio attraverso un “linguaggio per immagini” (11).
Per di più il racconto di Obama contiene la tecnica argomentativa del precedente, che consiste nel presumere, fino a prova contraria, la persistenza in avvenire di ciò che si è verificato in precedenza (12): nella fattispecie, la possibilità di un continuo miglioramento nelle condizioni della popolazione americana.
In una sua opera si può leggere: <Mentre aspettavo in coda, mi si avvicinò un uomo fra i trenta e i quarant’anni, vestito con pantaloni kaki e una maglietta da golf, esprimendo la speranza che quest’anno il Congresso facesse qualcosa per la ricerca sulle cellule staminali. “Ho il morbo di Parkinson allo stato iniziale” mi disse “e un figlio di tre anni. Probabilmente non riuscirò mai a giocare a nascondino con lui. So che per me può essere troppo tardi, ma non c’è motivo per cui qualcun altro debba passare quel che sto passando io”. Queste sono le storie che ci si perde, pensai tra me e me, quando si vola su un jet privato> (13).
Inoltre nello stesso libro ha esposto un caso particolare a sostegno della sua tesi sull’immigrazione: <Una bambina sui sette-otto anni, seguita dai genitori, si avvicinò e mi chiese un autografo: a scuola stava studiando il governo, mi spiegò e l’avrebbe mostrato alla classe. Le domandai come si chiamasse. Mi rispose che il suo nome era Cristina e frequentava la terza; dissi ai suoi genitori che dovevano essere orgogliosi di lei e mentre osservavo la bimba tradurre in spagnolo le mie parole, mi resi conto che l’America non ha nulla da temere da questi nuovi venuti […] Il pericolo si presenterà se non riusciremo a riconoscere l’umanità di Cristina e della sua famiglia, se li priveremo dei diritti e delle opportunità che diamo per scontati, tollerando l’ipocrisia di una classe servile in mezzo a noi; o, più in generale, se resteremo con le mani in mano mentre l’America continua a diventare sempre più ineguale, un’ineguaglianza che segue distinzioni di razza e quindi alimenta la lotta razziale e alla quale – mentre nel Paese continua a crescere il numero delle persone di colore – né la nostra democrazia né la nostra economia potranno resistere a lungo. Non è il futuro che voglio per Cristina, mi dissi mentre osservavo lei e la sua famiglia indirizzarmi un cenno d’addio. Non è il futuro che voglio per le mie figlie> (14).
Riguardo al medesimo tema e con un altro exemplum, in un discorso, il 20 novembre 2014, Barack Obama ha raccontato: <Queste persone – i nostri vicini di casa, i nostri compagni di classe, i nostri amici – non sono venute qui per approfittarsi di noi o per spassarsela. Sono venuti per lavorare, per studiare, per arruolarsi nel nostro esercito e soprattutto per contribuire al successo dell’America. Domani volerò a Los Angeles per incontrare alcune di queste studentesse, tra cui una ragazza di nome Astrid Silva. Portata in America a quattro anni, aveva con sé solo un crocefisso, una bambola e il vestitino increspato che indossava. Quando ha iniziato la scuola, non parlava inglese. Si è rimessa in pari con gli altri alunni leggendo quotidiani e guardando la televisione e alla fine è diventata una brava allieva. Suo padre lavorava come giardiniere, la madre faceva le pulizie in case private. Le avevano impedito di fare domanda per una magnet school di tecnologia, non perché non le volessero bene, ma perché temevano che le pratiche per l’ammissione potessero rivelare il suo status di immigrata clandestina. Alla fine Astrid ha presentato la domanda a loro insaputa ed è stata accettata. Ha vissuto a lungo nell’ombra, fino a che sua nonna, che andava a trovarla ogni anno dal Messico, è passata a miglior vita e lei non ha potuto partecipare al suo funerale per non rischiare di essere scoperta ed espulsa. È stato più o meno allora che ha deciso di cominciare a battersi per la sua causa e per quella degli uomini e delle donne nella sua stessa situazione e oggi Astrid Silva è una studentessa universitaria che sta studiando per la sua terza laurea. Siamo una nazione che espelle un’immigrata tenace e promettente come Astrid, o siamo una nazione che trova il modo per accoglierla? Le Scritture ci dicono di non opprimere uno straniero, perché conosciamo il suo cuore, dal momento che un tempo stranieri lo siamo stati anche noi. Concittadini americani, siamo e saremo sempre una nazione di immigrati> (15).
NOTE
(1) <L’“esempio” nel discorso della sconfitta di Hillary Clinton>, pubblicato il 22 dicembre 2016.
(2) OLIVIER REBOUL, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, p. 193. Sull’argomentazione per mezzo dell’esempio si veda CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, pp. 381-388.
(3) ERNST ROBERT CURTIUS, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, 1992, pp. 69 e 70.
(4) ANTHONY R. PRATKANIS, ELLIOT ARONSON, Psicologia delle comunicazioni di massa. Usi e abusi della persuasione, Il Mulino, 1996, pp. 146-147.
(5) CHRISTIAN SALMON, <Una macchina inventa-storie>, in Le Monde diplomatique, novembre 2006.
(6) Riportato in FRANCA RONCAROLO, Controllare i media. Il presidente americano e gli apparati nelle campagne di comunicazione permanente, Franco Angeli, 1994, nota 42, p. 153.
(7) CHRISTIAN SALMON, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi Editore, 2008, pp. 106-107. Non dovrebbe essere azzardato sostenere che dall’exemplum della retorica classica deriva il moderno storytelling. Di questo lemma il Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli (Zanichelli, 2016), oltre alla definizione più consueta di <il narrare, il raccontare storie; racconto>, ne offre una più precisa: <Presentazione in forma narrativa e suggestiva di una realtà, di una vicenda, ecc.>.
(8) BILL CLINTON, My Life, Mondadori, 2004, pp. 323, 407, 450, 749-750, 842-843, 379.
(9) BARACK OBAMA, La promessa americana. Discorsi per la presidenza, Donzelli, 2008, pp. 149-151.
(10) Riportato in LUCIANO CLERICO, Barack Obama. Come e perché l’America ha scelto un nero alla Casa Bianca, Edizioni Dedalo, 2008, pp. 263-264.
(11) La parola “luoghi” è la traduzione del termine greco tópoi (plurale di tópos), che indicava originariamente le sedi dove sono conservati gli elementi dell’argomentazione.
(12) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 114-115.
(13) BARACK OBAMA, L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo, Rizzoli, 2007, pp. 199-200.
(14) BARACK OBAMA, op. cit., pp. 272-274. Alla fine di questo estratto l’allora senatore democratico ha utilizzato l’identità. Infatti ha indicato, al di là della loro differente condizione, ciò che accomuna le sue due figlie e una bambina latino-americana immigrata negli Stati Uniti: il diritto ad un avvenire migliore. Su tale tecnica argomentativa cfr. CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 227-232.
(15) BARACK OBAMA, Un mondo degno dei nostri figli, Garzanti (Edizione speciale per Corriere della Sera), 2017, pp. 183-184.