di Giorgio Matza
La differenza tra statisti e politici deriva dal contrasto fra lungimiranza e limitatezza: infatti i primi attribuiscono una maggiore importanza alle generazioni successive e i secondi alle prossime elezioni, come abbiamo visto in un precedente articolo (1).
Un altro elemento distintivo risulta dalla propensione degli uni per l’interesse generale e degli altri per gli interessi particolari. Questa opposizione costituisce un tópos (2), così come quella fra il futuro più lontano (“le generazioni successive”) e il futuro più vicino (“le prossime elezioni”) e tante altre (vecchio-nuovo, parole-fatti, passato-futuro, divisione-unità, direzione sbagliata-direzione giusta). Una siffatta antitesi rappresenta un meccanismo persuasivo tanto semplice quanto efficace nella comunicazione politica.
È necessario dunque ricorrere a un’adeguata retorica per dare l’impressione di appartenere alla categoria degli statisti e non a quella dei politici. Lo ha fatto, per esempio, Barack Obama, quando, durante la campagna elettorale del 2008, ha detto: “Gli americani non si aspettano certo un governo che risolva ogni loro problema, ma sono stanchi di un governo al servizio di interessi di parte invece che di tutti. È giunto il momento di avere una leadership che si occupi più di Main Street che di Wall Street” (3).
In occasione delle elezioni presidenziali americane del 2000, era stato un altro candidato democratico, Al Gore, a sostenere tale necessità, in polemica con gli antagonisti repubblicani: “So una cosa sul ruolo del presidente. È l’unica carica prevista dalla Costituzione che ha la responsabilità di lottare per tutti, non solo per le persone che vivono in uno Stato o in un distretto, non solo per i ricchi o i potenti, tutti”. Ma i “tutti” ai quali si richiamava erano “specialmente quelli che hanno bisogno di una voce, quelli che hanno bisogno di un campione, quelli che hanno bisogno di essere risollevati, cosicché non potranno mai essere lasciati indietro” (4).
Prendendo una simile posizione, l’emittente del messaggio si attende dal ricevente “il riconoscimento che egli rappresenta una causa al di sopra delle parti, identificabile con il bene comune di tutto il Paese”, come scrive Franca Roncarolo, la quale ricorda un discorso di Ronald Reagan, del 27 luglio 1981, in cui si sosteneva che gli avversari “hanno messo insieme un programma fiscale per un’unica ragione: fornire a sé stessi una vittoria politica. Non importa che non risolva i problemi economici che affliggono il nostro paese. Non importa […] che non elimini l’inflazione” (5).
Il perseguimento di un obiettivo particolare a opera dei repubblicani, in contrasto con il vantaggio generale, è stato più volte denunciato da Bill Clinton, come si può leggere nella sua autobiografia:
“Fu riportata un’affermazione di Newt Gingrich, secondo il quale la strategia repubblicana consisteva nel non far passare la riforma dell’assistenza sanitaria votando contro gli emendamenti destinati a migliorarla. Mantenne la parola. Il 30 giugno [1994] il Ways and Means Committee della Camera respinse un disegno di legge che prevedeva l’assistenza sanitaria per tutti i cittadini senza un solo voto repubblicano a favore. I leader repubblicani avevano ricevuto un memorandum da William Kristol, ex direttore dello staff del vicepresidente Dan Quayle, che li invitava ad affossare la riforma del sistema sanitario. Kristol sosteneva che i repubblicani non potevano permettersi di far passare nulla; un successo sull’assistenza sanitaria avrebbe costituito una “seria minaccia politica per il Partito repubblicano”, mentre un fallimento sarebbe stato un “ostacolo monumentale per il presidente”. Alla fine di maggio, durante un ritiro per il Memorial Day, i leader repubblicani del Congresso decisero di adottare la posizione di Kristol”
“Molti opinionisti dei giornali e della televisione profetizzavano che quelle elezioni [di medio termine del 1998] sarebbero state un vero e proprio disastro per i democratici […] Non condividevo quelle previsioni per parecchi motivi. In primo luogo, la maggioranza degli americani disapprovava […] il fatto che i repubblicani del Congresso sembrassero più interessati a fare del male a me che ad aiutare loro”
“Durante la guerra in Kosovo alcuni [repubblicani] sembravano persino fare il tifo perché la perdessimo” (6).
Il Presidente degli Stati Uniti d’America costituisce, secondo Franca Roncarolo, “il momento di sintesi della vita politica”, “ambisce a presentarsi come simbolo dell’unità nazionale, punto di riferimento degli interessi generali” e “risulta tanto più popolare, quanto più incarna il ruolo simbolico di leader super partes, capace di impersonare i valori del Paese restando al di sopra degli schieramenti d’interessi” (7).
Nel suo discorso di insediamento, nell’agosto del 1974, il presidente americano Gerald Ford disse: “Non ho fatto campagne elettorali per la presidenza o per la vicepresidenza. Non ho sottoscritto nessuna piattaforma di parte, non ho debiti verso alcun uomo, ma solo con una donna – la mia cara moglie – mentre comincio questo difficile impegno. Io mi impegno a essere il presidente di tutto il popolo”.
Effettivamente, come ha ricordato Ferdinando Sallustio, Ford “fu nominato vicepresidente da Richard Nixon nel 1972 al posto di Spyro Agnew, dimissionario per uno scandalo fiscale. Dopo che anche Nixon, nel 1974, fu costretto a dimettersi, assunse la presidenza che tenne fino al 1977”. Ormai “la frase ‘presidente di tutto il popolo’ viene costantemente copiata da ogni candidato a qualsiasi carica pubblica, dal sindaco dei piccolissimi comuni fino ai massimi uffici elettivi” (8).
Come autorità al di sopra delle parti si presentò Bill Clinton nel suo intervento ad una convention, del quale ha parlato nella sua autobiografia: “Quel discorso fu uno dei più efficaci e importanti che abbia mai pronunciato. Esprimeva la sostanza di ciò che avevo imparato in diciassette anni di politica e di ciò che pensavano milioni di americani […] Abbracciando idee e valori che erano al tempo stesso progressisti e conservatori, catturò l’attenzione di quegli elettori che da anni non sostenevano i candidati democratici alla presidenza” (9).
L’immagine di leader super partes emerge in qualche modo pure in un intervento (un vero e proprio appello bipartisan) fatto da Barack Obama, in occasione delle elezioni presidenziali del 2008:
“Per la prima volta dopo tanto tempo, abbiamo la possibilità di creare una nuova maggioranza che non sia composta solo da democratici, ma anche da indipendenti e repubblicani che hanno perso la fiducia nei loro leader di Washington e che tuttavia vogliono ancora credere in qualcosa, e cercano disperatamente qualcosa di nuovo. Possiamo cambiare la matematica elettorale tutta basata sulle divisioni e fondarla sulle somme, costruendo una coalizione che operi per il cambiamento e il progresso e vada dagli Stati blu agli Stati rossi. È così che ho conquistato alcune fra le circoscrizioni più rosse e repubblicane dell’Illinois. È per questo che i sondaggi mi danno vincente sui candidati repubblicani alla presidenza – perché riesco ad attrarre voti tra gli indipendenti e i repubblicani più di ogni altro candidato” (10).
In Italia, fra i protagonisti della campagna elettorale del 1996, fu Romano Prodi quello che maggiormente apparve come uno statista. In una lettera a un quotidiano, in polemica con il suo più diretto antagonista, fece un discorso al di sopra delle parti, si potrebbe dire da presidente del Consiglio: “Replicando a Berlusconi, davanti alla platea dei commercianti milanesi, mi sono posto nella posizione diametralmente opposta alla sua. Ho detto, davanti ad una platea che si aspettava un atteggiamento particolare, che il mio intento era quello di usare di fronte a loro le medesime parole che avrei detto a tutti i 57 milioni di italiani. Cosa volevo dire? Che è da irresponsabili girare per l’Italia facendo promesse grandi e diverse di fronte ad ogni platea, sapendo che queste promesse non hanno alcuna possibilità di essere mantenute tutte insieme. Sapendo, addirittura, che queste promesse sono tra di loro in contraddizione […] Quando parlavo ai commercianti, istintivamente, sentivo l’obbligo di tenere presente i problemi e gli interessi di tutti gli altri italiani che in quel momento non erano fisicamente di fronte a me e, soprattutto, sentivo che Berlusconi stava strumentalizzando una categoria che si trova in una fase così critica e delicata di fronte ad uno Stato che manca ai suoi doveri ma anche di fronte alla grande distribuzione (di cui Berlusconi è stato e continua ad essere il principale protagonista) che comprime i guadagni dei commercianti e li espelle a migliaia dal mercato. E, mentre parlavo ai commercianti, tenevo presenti anche i problemi dei milioni di consumatori che debbono far quadrare i conti con stipendi che sono sempre più insufficienti per arrivare alla fine del mese […] E se mi propongo di governare tutto il Paese, non posso certo dimenticare le parti ‘deboli’ della società, gli immigrati, gli anziani, i giovani disoccupati che, non potendo contare su organizzazioni di categoria, vengono spesso e volentieri abbandonati dalla politica preelettorale. Per questo motivo, quando parlo di fronte ad una assemblea che porta avanti forti e legittimi interessi di categoria, preferisco correre il rischio di essere frainteso o fischiato, ma parlo sempre tenendo presente la verità di quello che dico e la compatibilità delle mie affermazioni rispetto ai conti dello Stato ed agli interessi di tutto il Paese. Voglio cioè dire che, quando parlo ai commercianti, il primo dovere che mi pongo è quello di non strumentalizzare i commercianti stessi. La sfida dell’Ulivo è quindi quella di riprendere insieme la via dello sviluppo, rispettandone le regole e le compatibilità e impedendo che una società, già così frammentata, vada definitivamente in pezzi” (11).
Tale opposizione fra “interessi di categoria” e “interessi di tutto il Paese” è stata sintetizzata dal centrosinistra nello slogan “l’Italia dei molti contro l’Italia dei pochi”, in occasione delle elezioni politiche del 13 maggio 2001, in cui il leader del centrodestra, Silvio Berlusconi, si confrontava con Francesco Rutelli, ex primo cittadino di Roma. Tuttavia, un consigliere di quest’ultimo ha riconosciuto: “Non credo che la nostra campagna sia riuscita a sfruttare in modo soddisfacente il profilo di sindaco di Rutelli. C’erano opinioni diverse al riguardo, perché da molte ricerche veniva fuori che il profilo di sindaco era molto positivo anche fuori Roma, al Nord, nel nord-est, e tuttavia molti pensavano che questo fatto non c’entrasse niente con la candidatura alla premiership. Ma si sarebbe potuto puntare di più sul contrasto imprenditore-sindaco. Interesse privato contro interesse pubblico. Il sindaco, infatti, a differenza dell’imprenditore è abituato ad amministrare gli affari pubblici” (12).
Quando si afferma la superiorità dei valori generali sui valori particolari, quando si promette solennemente di svolgere la funzione di “presidente di tutto il popolo”, emerge la consapevolezza di appartenere a una molteplicità di persone unite da relazioni e vincoli comuni. Come ha scritto Donna R. Miller, “ad ogni minoranza e special interest group bisogna rendere omaggio e mostrare comprensione e sostegno. D’altra parte, però, essi vanno unificati, amalgamati in un’unità intera e organica che risulta più grande, più forte e, in ultima analisi, più vitale della somma degli addendi” (13).
Perciò Bob Dole, da candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, in un intervento del 5 marzo 1996, osservò: “Non siamo né giovani né vecchi, né neri né bianchi, né disabili né abili, né contadini né cittadini o qualunque altra cosa. Siamo un’unica America”.
La stessa idea di comunità si delinea in alcuni discorsi di Bill Clinton, ai quali si fa riferimento nella sua autobiografia (il secondo venne pronunciato da presidente, in un momento particolarmente difficile per il suo Paese):
“Poi feci appello all’unità nazionale. Era la parte più importante del discorso e conteneva principi in cui ho sempre creduto fin da ragazzino: ‘Questa sera ciascuno sa nel profondo del cuore che siamo troppo divisi. È ora di ricomporre l’America. E allora dobbiamo dire a ogni americano: guardiamo oltre gli stereotipi che ci accecano. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Tutti noi abbiamo bisogno degli altri. Non dobbiamo perdere nessuno. Eppure, troppo a lungo i politici ci hanno detto che noi siamo a posto, che quello che non va in America sono gli altri, l’altro. L’altro, le minoranze. L’altro, i liberal. L’altro, i poveri. L’altro, i senza casa. L’altro, i portatori di handicap. L’altro, i gay. Siamo arrivati al punto da altrizzare fino quasi al suicidio. L’altro, l’altro, l’altro. Ma questa è l’America. Qui non ci sono altri; ci siamo solo noi. Una nazione, sottomessa a Dio, indivisibile, libera e giusta per tutti. Questo è il nostro giuramento solenne e questo dice il nostro nuovo patto’”>
“Nella tarda mattinata [del 19 aprile 1995] venni a sapere che un camion carico di tritolo era esploso davanti all’Alfred P. Murrah Federal Building di Oklahoma City, riducendo il palazzo a un cumulo di macerie e uccidendo un numero imprecisato di persone. Dichiarai immediatamente lo stato d’emergenza e mandai sul posto una squadra di investigatori. Quando ci si rese conto dello sforzo enorme che occorreva mettere in atto per i soccorsi, da ogni parte del paese giunsero a Oklahoma City pompieri e altri soccorritori che aiutarono a scavare tra le macerie nel disperato tentativo di trovare qualche sopravvissuto […] Io cercai di parlare a nome della nazione affermando: ‘Avete perso moltissimo, ma non avete perso tutto. E certamente non avete perso l’America, perché noi fino a quando ne avrete bisogno saremo al vostro fianco’” (14).
In occasione delle elezioni presidenziali del 2008, in alcuni suoi interventi anche Barack Obama si è richiamato all’unità:
“È grazie a uomini e donne di ogni razza, di ogni provenienza, che hanno continuato a marciare in nome della libertà anche molto tempo dopo che Lincoln riposava in pace, se oggi abbiamo l’occasione di affrontare insieme le sfide di questo millennio, come un solo popolo, come americani”
“Finché avrò vita non scorderò mai che in nessun altro paese della terra la mia storia sarebbe stata minimamente possibile. È una storia che non ha fatto di me il candidato più consueto. Ma è una storia che ha impresso nel mio codice genetico l’idea che questo paese è ben più che la somma delle sue componenti – l’idea che da tanti, siamo realmente divenuti una cosa sola”.
“Gli uomini e le donne che compiono il loro dovere sul campo di battaglia saranno magari democratici, repubblicani o indipendenti, ma hanno combattuto tutti insieme, hanno versato il loro sangue tutti insieme e in tanti sono morti sotto la stessa orgogliosa bandiera. Non hanno servito l’America rossa o l’America blu – hanno servito gli Stati Uniti d’America” (15).
“Giovani e vecchi, ricchi e poveri, Democratici e Repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi americani, gay, etero, disabili e non disabili […] hanno inviato al mondo questo messaggio: noi americani non siamo mai stati semplicemente una sommatoria di individui, un insieme di Stati Rossi e Stati Blu. Noi siamo e saremo sempre gli Stati Uniti d’America” (16).
NOTE
(1) “Successive generazioni o prossime elezioni? La differenza tra statisti e politici”, pubblicato il 13 luglio.
(2) Il plurale di questa parola greca, tópoi, tradotto in italiano con il termine “luoghi”, indicava originariamente le sedi, dove sono conservati gli argomenti (nel senso di prove portate a favore di una tesi, ragionamenti fatti a sostegno di un’opinione). Si fa dunque riferimento alla loro presenza nella memoria collettiva.
(3) BARACK OBAMA, La promessa americana. Discorsi per la presidenza, Donzelli, 2008, p. 113. Main Street sta per “gente comune”, Wall Street per “ricchi e potenti”.
(4) CRISTIAN VACCARI, Il discorso politico nelle elezioni presidenziali Usa 2000, in sito web.
(5) FRANCA RONCAROLO, Controllare i media. Il presidente americano e gli apparati nelle campagne di comunicazione permanente, Franco Angeli, 1994, p. 122.
(6) BILL CLINTON, My Life, Mondadori, 2004, pp. 647, 877, 930.
(7) FRANCA RONCAROLO, op. cit., pp. 19, 20, 37.
(8) FERDINANDO SALLUSTIO, Belle parole. I grandi discorsi della storia dalla Bibbia a Paperino, Bompiani, 2004, p. 331.
(9) BILL CLINTON, op. cit., p. 390.
(10) BARACK OBAMA, op. cit, pp. 125-126.
(11) La Repubblica, 28 marzo 1996, pp. 1-2.
(12) Intervento di PAOLO GENTILONI al convegno della società di consulenza RUNNING su Il marketing politico dopo la campagna 2001, Roma, 15 giugno 2001, in sito web. È proprio lui: l’attuale presidente del Consiglio era allora uno stretto collaboratore di Francesco Rutelli.
(13) DONNA R. MILLER, “Visioni polifoniche: la (ri)costruzione linguistica del paradigma consensuale nella propaganda elettorale statunitense”, in Quaderni Costituzionali, anno XVI, n° 3, dicembre 1996, p. 357.
(14) BILL CLINTON, op. cit., pp. 446-447 e 700-701, 702.
(15) BARACK OBAMA, op. cit., 2008, pp. 6, 135, 178.
(16) Riportato in LUCIANO CLERICO, Barack Obama. Come e perché l’America ha scelto un nero alla Casa Bianca, Edizioni Dedalo, 2008, p. 259.