Uno spot pubblicitario di Coca Cola vuole evidentemente consolidare la buona reputazione di un brand globale, rivelandone la sensibilità per il fenomeno, di dimensioni planetarie, dei movimenti migratori.
Ecco il testo che accompagna le immagini: “Il kebab gira il mondo da secoli e nessuno l’ha mai fermato. La cucina cinese ha conquistato l’Europa e tutti l’apprezzano. Il cibo messicano è ovunque e non conosce muri. La cucina fusion fa una cosa semplice: fonde diverse culture. Niente unisce di più del mangiare insieme. Per questo non importa se le french fries non sono francesi o che gli hamburger non vengano da Amburgo. Perché sono come Coca Cola: per tutti in ogni parte del mondo. Quando il mondo segue solo la testa, si divide. Quando ascoltiamo la pancia, ci avviciniamo. Ritroviamo il gusto di un mondo senza confini”.
Emerge implicitamente una condanna per l’avversione nei confronti di quanti lasciano il proprio Paese per lo più per motivi politici (dittature, guerre), economici (povertà, carestie) e vanno alla ricerca di condizioni di vita migliori. Alla base dell’atteggiamento xenofobo è solitamente la fallacia della generalizzazione indebita: “Gli stranieri spacciano droga”, “Rubano nelle nostre case”, “Violentano le nostre donne”. Ovviamente non è giusto accusare ciascuno di loro. Ognuna di tali ragioni è utilizzata in funzione di argumentum ad captandum vulgus, ossia “argomento per conquistare le masse”, ma nel senso di irretirle.
Acquista particolare risalto, pur non essendo espressa direttamente, la critica all’ideologia di Donald Trump (“il cibo messicano è ovunque e non conosce muri”). Inoltre si potrebbe interpretare l’esortazione contenuta nella conclusione (“ritroviamo il gusto di un mondo senza confini”) come l’auspicio di un ritorno alla politica dei predecessori dell’attuale comandante in capo degli Stati Uniti d’America.
La speaker della Camera dei rappresentanti, la democratica Nancy Pelosi, in un’intervista così ha risposto a una domanda sulla crisi dei migranti: “Il presidente la sta usando per dare ‘carne rossa’ in pasto a una parte delle sue folle. Ma guardi voglio richiamare Ronald Reagan, il presidente più citato nelle ultime campagne elettorali [da Trump]. Mi sembra già questo un titolo, no? Nancy Pelosi cita Ronald Reagan. Bene Reagan alla fine del suo mandato disse: ‘Questo è il mio ultimo discorso da presidente e voglio lasciare un messaggio al mio amato Paese. La forza vitale che assegna alla nostra Nazione un ruolo predominante nel mondo è la sua capacità di accogliere le nuove generazioni di migranti. Il giorno in cui l’America non riconoscerà più questa sua forza, avrà perso anche il suo ruolo guida sulla terra’”. Poi Pelosi ha aggiunto: “Bush padre, Clinton, Bush figlio, Obama… Tutti i presidenti hanno seguito le parole di Reagan. Tutti hanno riconosciuto la necessità di avere un’infusione di nuove energie e nuovi talenti in questo Paese. Non importa quale sia la posizione politica. Semplicemente l’America non ha mai chiuso e non può chiudere le porte” (1).
I passi successivi sono ricavati dai discorsi sullo stato dell’Unione, tenuti da Reagan e Bush figlio rispettivamente nel gennaio 1985 e nel gennaio del 2007:
“Due secoli di storia americana dovrebbero averci insegnato che niente è impossibile. Dieci anni fa, una ragazza ha lasciato il Vietnam con la sua famiglia. Sono venuti negli Stati Uniti senza bagagli e senza sapere una parola di inglese. La ragazza ha lavorato sodo e alla fine delle secondarie era tra le prime della sua classe. Nel maggio di quest’anno, esattamente dieci anni dopo aver lasciato il Vietnam, prenderà il diploma dell’Accademia militare di West Point. Mi sono detto che vi avrebbe fatto piacere incontrare questa eroina americana, il cui nome è Jean Nguyen” (2).
“La più grande forza che abbiamo è la bontà eroica, il coraggio e lo spirito di sacrificio del popolo americano. Rendersene conto non è difficile, basta sapere dove cercare. E questa sera non dovete fare altro che guardare sulla tribuna. Dikembe Mutombo è cresciuto in Africa, in condizioni di estrema povertà e malattie. È venuto all’università di Georgetown con una borsa di studio per laurearsi in medicina, ma l’allenatore John Thompson gli ha dato un’occhiata e ha avuto un’altra idea. Dikembe è diventato una delle star della NBA [il campionato di basket americano] e un cittadino americano. Non ha mai dimenticato la terra dove è nato, né l’obbligo di condividere la sua fortuna con gli altri. Ha fatto costruire un ospedale nuovo di zecca nella sua città di origine. Un suo amico ha detto di lui: ‘Mutombo ritiene che Dio gli abbia dato la possibilità di fare grandi cose’. E noi siamo fieri di chiamare questo figlio del Congo cittadino degli Stati Uniti” (3).
A proposito dell’immigrazione, Barack Obama ha raccontato:
“Una bambina sui sette-otto anni, seguita dai genitori, si avvicinò e mi chiese un autografo: a scuola stava studiando il governo, mi spiegò e l’avrebbe mostrato alla classe. Le domandai come si chiamasse. Mi rispose che il suo nome era Cristina e frequentava la terza; dissi ai suoi genitori che dovevano essere orgogliosi di lei e mentre osservavo la bimba tradurre in spagnolo le mie parole, mi resi conto che l’America non ha nulla da temere da questi nuovi venuti […] Il pericolo si presenterà se non riusciremo a riconoscere l’umanità di Cristina e della sua famiglia, se li priveremo dei diritti e delle opportunità che diamo per scontati, tollerando l’ipocrisia di una classe servile in mezzo a noi; o, più in generale, se resteremo con le mani in mano mentre l’America continua a diventare sempre più ineguale, un’ineguaglianza che segue distinzioni di razza e quindi alimenta la lotta razziale e alla quale – mentre nel Paese continua a crescere il numero delle persone di colore – né la nostra democrazia né la nostra economia potranno resistere a lungo. Non è il futuro che voglio per Cristina, mi dissi mentre osservavo lei e la sua famiglia indirizzarmi un cenno d’addio. Non è il futuro che voglio per le mie figlie” (4).
In un intervento del 20 novembre 2014 il primo presidente nero degli Stati Uniti si è soffermato sul medesimo tema:
“Queste persone – i nostri vicini di casa, i nostri compagni di classe, i nostri amici – non sono venute qui per approfittarsi di noi o per spassarsela. Sono venuti per lavorare, per studiare, per arruolarsi nel nostro esercito e soprattutto per contribuire al successo dell’America. Domani volerò a Los Angeles per incontrare alcune di queste studentesse, tra cui una ragazza di nome Astrid Silva. Portata in America a quattro anni, aveva con sé solo un crocefisso, una bambola e il vestitino increspato che indossava. Quando ha iniziato la scuola, non parlava inglese. Si è rimessa in pari con gli altri alunni leggendo quotidiani e guardando la televisione e alla fine è diventata una brava allieva. Suo padre lavorava come giardiniere, la madre faceva le pulizie in case private. Le avevano impedito di fare domanda per una magnet school di tecnologia, non perché non le volessero bene, ma perché temevano che le pratiche per l’ammissione potessero rivelare il suo status di immigrata clandestina. Alla fine Astrid ha presentato la domanda a loro insaputa ed è stata accettata. Ha vissuto a lungo nell’ombra, fino a che sua nonna, che andava a trovarla ogni anno dal Messico, è passata a miglior vita e lei non ha potuto partecipare al suo funerale per non rischiare di essere scoperta ed espulsa. È stato più o meno allora che ha deciso di cominciare a battersi per la sua causa e per quella degli uomini e delle donne nella sua stessa situazione e oggi Astrid Silva è una studentessa universitaria che sta studiando per la sua terza laurea. Siamo una nazione che espelle un’immigrata tenace e promettente come Astrid, o siamo una nazione che trova il modo per accoglierla? Le Scritture ci dicono di non opprimere uno straniero, perché conosciamo il suo cuore, dal momento che un tempo stranieri lo siamo stati anche noi. Concittadini americani, siamo e saremo sempre una nazione di immigrati” (5).
Attraverso le immagini di Jean Nguyen, Dikembe Mutombo, Cristina e Astrid Silva, si attua un’argomentazione fondata sul caso particolare, più precisamente sull’exemplum (6).
Ernst Robert Curtius ha constatato che “gli exempla contenuti negli autori antichi e riferiti alle virtù ed alle debolezze umane servirono, nel Medio Evo, come elementi di edificazione. Exemplum (paradeigma) è un termine tecnico della retorica classica a partire da Aristotele e significa ‘narrazione addotta come dimostrazione’”, mentre con l’espressione “figura-esemplare” (eikón, imago) si indica “l’incarnazione di una certa qualità in un personaggio” (7): nella fattispecie i protagonisti dei racconti appena riportati simboleggiano la capacità di raggiungere l’obiettivo dell’integrazione mediante la buona volontà.
L’“esempio” rientra nel logos, cioè lo strumento retorico razionale caratterizzato, come ha rilevato Olivier Reboul, dalla “attitudine a convincere grazie alla sua apparenza di logicità e al fascino del suo stile” e che dunque “concerne l’argomentazione propriamente detta” (8). Tuttavia l’argomento di cui stiamo trattando, come risulta dalle diverse occorrenze, diventa più efficace per il collegamento con il pathos, ossia il mezzo di persuasione di ordine affettivo con il quale l’emittente del messaggio, per coinvolgere maggiormente il ricevente, tende a suscitare in lui vari sentimenti, come la solidarietà nei confronti dei migranti per favorirne l’inserimento all’interno della società. Secondo Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “per creare l’emozione è indispensabile la specificazione, poiché le nozioni generali, gli schemi astratti non agiscono sull’immaginazione. Il Whately [R. D. D. Whately, Elements of Rhetoric, p. 130] osserva in una nota che un uditorio, rimasto insensibile di fronte a informazioni generiche sulla carneficina che caratterizzò la battaglia di Fontenoy, fu commosso fino alle lacrime da un particolare relativo alla morte di due giovani” (9).
Note
(1) Corriere della Sera, 27 giugno 2019, p. 6.
(2) Riportato in Christian Salmon, “Una macchina inventa-storie”, in Le Monde diplomatique, novembre 2006.
(3) Riportato in Christian Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi Editore, 2008, pp. 106-107.
(4) Barack Obama, L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo, Rizzoli, 2007, pp. 272-274.
(5) Barack Obama, Un mondo degno dei nostri figli, Garzanti (Edizione speciale per Corriere della Sera), 2017, pp. 183-184.
6) Sull’argomentazione per mezzo dell’“esempio” si veda Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, pp. 381-388.
(7) Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, 1992, pp. 69 e 70.
(8) Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, pp. 36 e 70.
(9) Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit., p. 159.