Ricordate il “governo del popolo” di Conte? Viaggio nella “dissociazione delle nozioni”, da Silvio Berlusconi a Maria Elena Boschi
Nel loro fondamentale Trattato dell’argomentazione, Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca prendono in esame anche la dissociazione delle nozioni. Consiste nell’eliminazione di un’incompatibilità, originando la coppia gerarchizzata apparenza/realtà, che deriva per l’appunto dall’inconciliabilità fra due aspetti, uno giudicato ingannevole e uno corrispondente alla verità: ne consegue ovviamente la valorizzazione del secondo rispetto al primo (1).
La funzione polemica di tale tecnica argomentativa si percepì, quando alcuni esponenti della maggioranza giallo-verde, che lo sosteneva (leghisti e pentastellati), considerarono quello presieduto da Giuseppe Conte “il governo del popolo”. L’intero popolo dunque vi si sarebbe dovuto riconoscere; però non fu così: anzi una parte manifestò una certa avversione. Probabilmente condivideva una riflessione, riportata in un articolo di Tito Boeri (professore ordinario di Economia del lavoro all’Università Bocconi e già presidente dell’Inps) nel quale si simula una conversazione fra un populista e un economista. Il secondo, evidentemente alludendo specialmente all’azione politica di Matteo Salvini (segretario della Lega e allora ministro dell’Interno e vicepremier), racconta: “L’altro giorno ho trovato un cartello appeso fuori da una bocciofila che nella sua semplicità contiene una grande verità: ‘Quando milioni di poveracci sono convinti che i propri problemi dipendono da chi sta peggio di loro, siamo di fronte al capolavoro delle classi dominanti’” (2). In qualche modo s’insinuava il dubbio che il primo governo Conte rappresentasse apparentemente il “popolo”; ma realmente un gruppo sociale minoritario.
Della coppia gerarchizzata apparenza/realtà, nella sua variante verbale/reale, con Giuseppe Conte come obiettivo, si avvalse, in un’intervista rilasciata a un settimanale, Matteo Renzi: “Beh, lui è l’establishment. Dice che è l’‘avvocato del popolo’: ma quando mai!” (3).
Si annullava l’incongruenza fra la necessità di opporsi al presidente del Consiglio e la sua pretesa di essere il difensore dei ceti meno elevati. Per il futuro leader di Italia Viva, lo era solo a parole (“dice”), nei fatti (“ma quando mai!”) favoriva “l’establishment”.
La dissociazione delle nozioni è largamente impiegata in particolare nella comunicazione degli uomini politici, specialmente nelle dispute. Si propongono alcuni casi, ricavati dall’elocuzione di candidati alle elezioni del 21 aprile 1996, come Silvio Berlusconi:
“Il cosiddetto conflitto d’interessi è stato studiato da tre saggi e per mia iniziativa avviato a soluzione attraverso un disegno di legge già approvato al Senato ma poi arenatosi alla Camera. In due settimane avrebbe potuto essere approvato, se chi grida da tanto tempo avesse avuto intenzioni serie e non puramente propagandistiche. E soprattutto se non avesse voluto conservarsi questi spunti demagogici proprio per la campagna elettorale” (Panorama, 7 marzo 1996, p. 19)
“Credono di poter prendere in giro gli italiani […] Altro che nuovo che avanza: è il vecchio che ritorna, che vuole riprendersi il potere. Sedici partiti diversi, tutti più o meno corresponsabili di quello che è stato il saccheggio della finanza pubblica dall’80 al 93” (Corriere della Sera, 25 marzo 1996, p. 2).
Il capo del centrodestra, trattando del “conflitto d’interessi”, lo definiva “il cosiddetto”, per evidenziarne il carattere apparente e non reale. Invece le “intenzioni” degli antagonisti si rivelavano apparentemente “serie” e realmente “propagandistiche”. Ugualmente il centrosinistra era “nuovo che avanza” all’apparenza e “vecchio che ritorna” nella realtà.
Ricordiamo che in precedenza si era parlato di “vecchio” che sosteneva di essere il “nuovo” a proposito del primo governo Berlusconi. Lo attestano i seguenti passi, che si devono rispettivamente a Massimo D’Alema, Mario Segni, Umberto Bossi:
“Il berlusconismo potrebbe essere definito, tra il serio e il faceto, ‘la fase suprema del craxismo’. Altro che seconda Repubblica, noi siamo entrati nella fase estrema, che potrebbe anche diventare drammatica, della prima Repubblica” (la Repubblica, 3 settembre 1994, p. 6)
“La vecchia Dc […] è quella di Berlusconi: in buona parte, sta già con lui, insieme a un pezzo del vecchio Psi […] Un pezzo consistente dell’apparato di potere craxiano è saltato sulla locomotiva di Berlusconi” (la Repubblica, 20 settembre 1994, p. 16)
“Questo governo non è fatto solo da quelli di prima che sono tornati sotto falso nome: assistiamo a lottizzazioni incredibili, vediamo una serie di cose che hanno un effetto molto sgradevole per una forza politica che pensava di cambiare il paese. La Lega non è vincolata in maniera assoluta all’interno di un sistema di partiti che alla fine risulta non molto diverso da quello che c’era prima” (la Repubblica, 25 ottobre 1994, p. 4).
Nel 1996, Gianfranco Fini così polemizzò con Lamberto Dini: “Non creda di presentarsi al Paese come l’uomo moderato che chiede i voti del centro, perché la nostra campagna elettorale sarà tesa a dimostrare che lui è, come realmente è, il cavalier servente di D’Alema in sostituzione di Prodi” (Corriere della Sera, 27 febbraio 1996, p. 4).
Nel corso di un dibattito, Silvio Berlusconi ribadì uno dei motivi conduttori del suo impegno politico: “Nel 1994 sono sceso in campo perché sentivo che la libertà e la democrazia erano minacciate”. Massimo D’Alema, distinguendo, dal suo punto di vista, fra l’apparenza degli ideali più elevati e la realtà degli interessi personali, ribatté: “Lei è sceso in campo perché erano usciti dal campo alcuni suoi amici, altro che storie” (Corriere della Sera, 16 marzo 1996, p. 6).
Quando il suo avversario per la conquista della Presidenza del Consiglio chiese: “Se il 21 aprile vince l’Ulivo, siamo sicuri che avremo ancora la possibilità di elezioni veramente libere?” (La Repubblica, 14 aprile 1996, p. 2), Romano Prodi osservò: “Ormai Berlusconi fa terrorismo […] Non ha paura per le elezioni future, ha paura di quelle di domenica” (La Repubblica, 15 aprile 1996, p. 4).
È probabile che l’opposizione fra apparenza e realtà richiami nella nostra mente l’idea della finzione, dell’inganno, dell’imbroglio. Ne derivano, secondo Erving Goffman, “terribili conseguenze dell’esser colti […] in un evidente atto di rappresentazione fuorviante” (4).
Edward Kennedy, intervenendo all’assemblea generale dei delegati democratici del 1980, a New York e utilizzando termini quali “trucco”, “giochetto”, “trucchetto”, disse:
“Alla convention repubblicana abbiamo sentito che tutti gli oratori cercavano di scimmiottare i democratici. Hanno provato che persino i candidati repubblicani possono citare Franklin Roosevelt a loro uso e consumo. Il grand old party crede di aver escogitato un nuovo grande trucco. Ma quarant’anni fa, un’altra generazione di repubblicani aveva tentato lo stesso giochetto. E Franklin Roosevelt stesso rispose: ‘Molti dei leader repubblicani… hanno combattuto duramente e impedito l’avanzata dell’uomo e della donna comuni nella loro ricerca della felicità. Non illudiamoci che dall’oggi al domani quegli stessi leader siano diventati gli amici degli uomini e delle donne comuni… di certo, pochissimi fra noi sono creduloni’. Quattro anni dopo, quando i repubblicani hanno di nuovo rispolverato lo stesso trucchetto, Franklin Roosevelt pose questa domanda: ‘La Vecchia Guardia può farsi passare per il New Deal? Non credo proprio. Al circo abbiamo visto tutti un sacco di acrobazie meravigliose – ma è impensabile che un elefante possa fare un numero sugli anelli senza cadere a terra come un salame’. Alla convention repubblicana del 1980 i partecipanti piangevano lacrime di coccodrillo per la crisi economica, ma riconosceremo i repubblicani per il loro passato non per le parole recenti”
“I tagli fiscali dei nostri oppositori repubblicani prendono invano il nome di riforma fiscale. È un’idea repubblicana fantastica che però ridistribuirebbe i redditi nella direzione sbagliata. È una buona notizia per chi di voi ha un reddito annuale superiore ai $ 200.000. Per quei pochi di voi offre un jackpot di $ 14.000. Tuttavia il taglio fiscale repubblicano è una cattiva notizia per le famiglie a reddito medio. Per la maggioranza di voi, prevedono una ridicola facilitazione annua di $ 200. Questo, sia chiaro, non è ciò che intende il Partito Democratico per riforma fiscale” (5).
Ronald Reagan eliminò un’incompatibilità in maniera particolarmente efficace, nel corso della competizione per le votazioni che nel 1984 lo riportarono alla Casa Bianca. Durante il primo dibattito televisivo, dimostrò di avvertire il peso dei suoi 74 anni e colpì il contrasto rispetto al suo più giovane antagonista, il democratico Walter Mondale. Presso l’opinione pubblica si diffuse un po’ di scetticismo sulla possibilità per il presidente uscente di continuare a guidare il Paese. I suoi consiglieri prevedevano che, al momento del successivo dibattito televisivo, il problema si sarebbe riproposto e magari qualcuno avrebbe detto che era vecchio per un secondo mandato. Effettivamente l’occasione si presentò ed ecco che cosa rispose Reagan: “Sappiate che non accetterò di fare dell’età una questione in questa campagna elettorale. Non voglio sfruttare per fini politici la giovinezza e l’inesperienza del mio avversario”.
Essere anziani quindi costituisce un limite in apparenza e in realtà un vantaggio. Enrico Franceschini ha ricordato: “Il tono, i tempi, l’espressione facciale, il linguaggio corporeo che accompagnano la battuta sono da varietà televisivo: ridono tutti, anche Walter Mondale, a malincuore, e il giorno dopo giornali e telegiornali non parlano che di quella divertente spiritosaggine. La questione della vecchiaia di Reagan è sepolta. Il secondo dibattito, decretano i mass media, lo ha vinto lui, e qualche settimana dopo trionfa alle urne”.
Il giornalista italiano ha aggiunto: “Reagan vinse anche, o soprattutto, per altre ragioni […] Eppure, per quanto assurdo possa sembrare, molti autorevoli commentatori pensano che se avesse perso quel secondo dibattito, le cose potevano andare diversamente” (6).
Arthur Schopenhauer ha rilevato: “A ridere la gente è subito pronta e quelli che ridono li si ha dalla propria parte” (7).
Si ricorre dunque alla dissociazione delle nozioni quale strumento di difesa, oltre che di attacco. In Italia, quando si doveva eleggere, il 9 novembre 1997, il rappresentante del Collegio senatoriale di Firenze 3, Alessandro Curzi, candidato di Rifondazione comunista, affermò: “Bisogna parlare qui nel rosso Mugello dell’incoerenza di scegliere un moderato come Di Pietro”.
Così l’ex magistrato, che concorreva alla carica per lo schieramento di centrosinistra, confutò l’argomentazione del rivale:
“Quelli come me che vengono da un’area moderata debbono cercare di convincere il maggior numero possibile di moderati che con l’attuale sinistra si può governare… Quelli moderati come me, sa io provengo da una zona dove tutti i nostri genitori erano di area cattolica e democristiani, devono rivolgersi al popolo della sinistra e dire: ‘guardate, io provengo da un’area non vostra, datemi fiducia perché io voglio fare da apripista per un incontro fra l’area moderata e la sinistra più illuminata’. Le cose costruite piano piano attraverso la comprensione fra le due aree credo che possano durare di più” (dal filo diretto pubblicato su l’Unità-Mattina, 5 ottobre 1997)
“Il mio progetto, che è il progetto dell’Ulivo, è un innesto di fiducia tra aree di appartenenza diverse, ma in cui si ritrovano gli stessi valori dalla solidarietà all’efficienza” (dal discorso alla Casa del popolo di Fiesole del 7 novembre 1997)
“Sono venuto qui per un preciso progetto politico: quello di allargare l’area della sinistra che oggi a mio avviso è l’unica affidabile… Il rafforzamento dell’ala moderata dell’Ulivo può creare le condizioni perché l’Ulivo stesso diventi maggioranza stabile e non abbia più bisogno dell’appoggio esterno di Rifondazione” (L’Indipendente, 31 ottobre 1997) (8).
Con le sue dichiarazioni Di Pietro dimostrava che la contraddizione evidenziata da Curzi era apparente e non reale.
Più recentemente a utilizzare la tecnica argomentativa di cui stiamo trattando, in funzione di strategia difensiva, è stata in un’intervista Maria Elena Boschi.
Domanda: “L’altro ieri lei ha abbandonato il vertice sul Recovery Fund: una sfida a Conte?”.
Risposta: “Al contrario […] Noi non stiamo sfidando il premier, stiamo solo difendendo le istituzioni di questo Paese: non abbiamo voluto dare i pieni poteri a Salvini, non intendiamo darli a Conte”.
E più avanti la capogruppo di Italia Viva alla Camera ha precisato: “Siamo in presenza di un fatto gravissimo. Non è possibile che il premier sostituisca il governo con una task force, i servizi segreti con una fondazione, le sedute parlamentari con le dirette Facebook” (9).
Un esempio di ragionamento mirante all’eliminazione di un’incompatibilità si desume da un episodio raccontato nel romanzo Colori primari. Per la figura del protagonista l’autore ha preso ispirazione da un personaggio non immaginario: per inciso, è il governatore di un piccolo stato del Sud, partecipa alla campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti e… ha tradito la moglie. Nel corso di un’intervista, in un intervento su una loro crisi, dovuta appunto a una relazione extraconiugale del marito, lei riconosce: “‘Sì, è vero, abbiamo attraversato un periodaccio’”. Però subito aggiunge: “‘Ma siamo ancora qui. E se da questo vuoi trarre una lezione politica su Jack Stanton e sul suo carattere, non puoi certo parlare di incoerenza… anzi, no, che parola avevi usato?’. Qui scoppiò quasi a ridere. ‘Ah, sì: inaffidabilità. Be’, io direi che è proprio l’opposto. Quest’uomo non rinuncia. Quest’uomo si metterà d’impegno per superare i brutti momenti. Ogni mattina si sveglierà e si farà un mazzo così per tutto il popolo americano’” (10).
Non esiste dunque inconciliabilità fra il non essere stato un coniuge fedele e il diventare un buon presidente. Solo in apparenza non è degno di fiducia; in realtà lo è. La prova data nel salvare il suo matrimonio preannuncia lo zelo con cui si adopererà a favore della collettività.
Note
(1) Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013.
(2) Tito Boeri, “Un populista e un economista sul tram”, in 7 – Corriere della Sera, 13 settembre 2018, p. 25.
(3) Gian Antonio Stella, “Io ero il barbaro, Conte è l’uomo dei salotti”, in 7-Corriere della Sera, 14 febbraio 2019, pp. 16-23.
(4) Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, 1969, pp. 70-71.
(5) Riportato in Mario Rodriguez, Una parola vale più di mille immagini, in sito web.
(6) Enrico Franceschini, I padroni dell’universo. L’America dei nuovi persuasori occulti, Bompiani, 1990, pp. 196-197.
(7) Arthur Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi, Adelphi, 1992, p. 49.
(8) I passi sono riportati in Carlo Sorrentino, Il candidato Antonio Di Pietro: la costruzione di strategie mediali nella campagna elettorale del Mugello, pp. 31-32 e 42, in sito web.
(9) Riportato in Corriere della Sera, 8 dicembre 2020, p. 3.
(10) Anonimo, Colori primari, Garzanti, 1996, p. 143.