L’argomento della regola di giustizia in retorica
Luca Morisi era il responsabile della cosiddetta “bestia”, l’apparato per la propaganda al servizio del segretario della Lega, spesso impegnata nella costruzione di un nemico con la pubblicazione di post nei social, in cui si espongono al livore, per esempio, drogati, gay, stranieri. Si è dimesso, quando ha capito di essere in una condizione piuttosto critica a causa di una storia di droga e sesso con due giovani escort romeni. Inevitabilmente, sulla base di una simile incoerenza, i mezzi di comunicazione di massa ne hanno parlato, violando il diritto alla riservatezza. Perciò ha incassato il sostegno del suo datore di lavoro (“Quello che sta capitando a Morisi non lo augurerei al mio peggior nemico. Sono dispiaciuto della schifezza mediatica che condanna le persone”) e perfino del giornalista Corrado Formigli, il quale però ha precisato: “La gogna mediatica fa schifo, fa sempre schifo. Anche quella che Salvini ha spesso e volentieri, anche attraverso la ‘bestia’ di Luca Morisi, applicato ai suoi avversari: quindi solidarietà a Elsa Fornero [clip con insulti all’ex ministra del lavoro e delle politiche sociali]; quindi solidarietà al diciassettenne marocchino Yassin, accusato insieme alla sua famiglia di spaccio davanti alle telecamere da Salvini, a Bologna, in campagna elettorale [clip sulla citofonata, ormai diventata famosa]; quindi solidarietà a Laura Boldrini per questo tweet e decine di altri [‘Ipocrita, buonista, razzista con gli italiani. Dimettiti! #sgonfialaboldrini], preceduto da questo video [sul palco, durante un comizio, chi si è dichiarato “dispiaciuto della schifezza mediatica che condanna le persone” mostra una bambola gonfiabile, che, a parer suo, avrebbe dovuto riprodurre l’immagine dell’allora presidente della Camera dei deputati]. E ancora, insieme alla solidarietà per Luca Morisi per la gogna mediatica, solidarietà alla famiglia Cucchi. Davanti alla condanna di due carabinieri per la morte, per l’assassinio di Stefano Cucchi, ammazzato di botte, quello che ha avuto da dire Salvini è che ‘questo testimonia che la droga fa male sempre e, comunque, io combatto la droga in ogni piazza’. Come dire, Stefano Cucchi con la droga se l’è proprio cercata questa morte” (1).
In una lettera a un settimanale, riguardo ai no-vax, un lettore ha affermato: “Chi ha preso il Covid, magari perché ha partecipato a una manifestazione, può essere curato ma deve sapere che ha contratto un debito che dovrà ripagare”. Nella sua risposta Lilli Gruber ha osservato: “Curiamo i tumori di chi fuma e operiamo d’urgenza chi fa un incidente d’auto anche se era senza cintura o aveva bevuto troppo” (2).
Gli estratti appena riportati offrono lo spunto per affrontare il tema – lo abbiamo già fatto in un precedente articolo – della “regola di giustizia” (3). Essa, per Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “esige l’applicazione di un identico trattamento ad esseri o situazioni integrati in una stessa categoria” (4) (nello specifico, per Formigli, chiunque subisca un attacco detestabile, merita il medesimo atteggiamento solidale e, come ricorda Gruber, “l’Italia è fondata anche sull’assistenza sanitaria gratuita e universale”). È compresa, dunque, nel logos, lo strumento retorico di ordine razionale, che, secondo Olivier Reboul, è contraddistinto dalla “attitudine a convincere grazie alla sua apparenza di logicità e al fascino del suo stile” e perciò “concerne l’argomentazione propriamente detta” (5).
Varie declinazioni di tale tecnica argomentativa si colgono nell’autobiografia di Bill Clinton, laddove l’ex presidente degli Stati Uniti si sofferma sulla sua messa in stato d’accusa per la relazione adulterina con la giovane stagista Monica Lewinsky:
“Feci la mia prima apparizione in pubblico, dopo la deposizione davanti al gran giurì, durante un viaggio a Worcester, Massachusetts […] È una città operaia vecchio stile e mi preoccupava un po’ il tipo di accoglienza che avrei potuto ricevere: ma fui rincuorato da una grande folla entusiasta venuta ad assistere a un evento […] Molti tra la folla mi incitarono a continuare il mio lavoro e molti dissero che anche loro avevano commesso errori nella loro vita e che non era bello che il mio fosse diventato di dominio pubblico”
“Peter King, con cui avevo lavorato al problema dell’Irlanda del Nord, dovette resistere a settimane di pressioni enormi, fra cui varie minacce di distruggerlo politicamente se non avesse votato a favore dell’impeachment. In diverse interviste televisive, King diede ai suoi compagni di partito una motivazione molto semplice: sono contrario all’impeachment perché, se Clinton fosse repubblicano, sareste contrari anche voi. I repubblicani favorevoli all’impeachment che parteciparono con lui ai talk show non trovarono mai una risposta valida a questo argomento”
“Il mio impeachment non riguardava la mia imperdonabile condotta personale; anche nel loro schieramento [il repubblicano] si verificavano molte vicende del genere e stavano cominciando a venire a galla, anche senza azioni legali manipolate e pubblici ministeri speciali per le indagini. E non riguardava neanche il fatto che avessi mentito in un procedimento legale; quando si scoprì che Newt Gingrich aveva reso falsa testimonianza diverse volte durante l’indagine dell’Ethics Committee della Camera sulle prassi apparentemente illecite del suo comitato di azione politica, ricevette un ammonimento e una multa dalla stessa combriccola che aveva appena votato per il mio impeachment” (6).
Durante la competizione del 1996 per la Casa Bianca, il concorrente democratico Bill Clinton ha difeso sua moglie dagli attacchi dell’avversario repubblicano, provocati dalla pubblicazione di un saggio sulla solidarietà sociale, ricollegandosi a un principio di equità: “Nutro rispetto […] per il modo in cui [il senatore Dole] non si è arreso nonostante le gravi ferite riportate in guerra. Ma quante volte ha raccontato la storia delle persone che lo hanno aiutato in ospedale e di come il paese si sia prodigato per assisterlo? Quante volte ha raccontato di quando è tornato a casa, a Russel, nel Kansas e dell’impegno di tutti perché si rimettesse in sesto? Hillary non ha mai detto che gli individui non sono responsabili delle loro azioni. Lo crede fermamente e pensa che la famiglia sia il nucleo più importante della società. Nel suo libro It takes a village [“C’è bisogno di un villaggio”] dice che se vogliamo che gli individui e le famiglie si impongano, dobbiamo accollarci quella parte di responsabilità che ci spetta per poter andare avanti. E credo che questa sia davvero la storia della vita del senatore Dole […] Non dubito che il villaggio lo abbia aiutato. Ma anche io sono diventato quello che sono grazie anche ad un villaggio” (7).
Nella campagna elettorale del 1988, George Bush si appellò alla regola di giustizia in una conversazione televisiva con Dan Rather (il noto conduttore della CBS). Ecco la cronaca che si deve a un giornalista italiano: “Rather prepara un’imboscata: vuole imbarazzare Bush con accuse sulle presunte connessioni con lo scandalo Irangate, il traffico illecito di armi e dollari fra Stati Uniti, Iran e i ribelli ‘contras’ del Nicaragua. E Bush ci va armato a sua volta di una trappola con cui rispondere all’imboscata del giornalista. Qualche mese prima, Dan Rather, infuriato perché una partita di tennis minacciava di fare iniziare in ritardo il suo telegiornale, se ne era andato via dallo studio sbattendo la porta: quando la partita si concluse prima del previsto, all’ora del telegiornale la CBS fu costretta a mandare in onda uno schermo nero, vuoto, per sei interminabili minuti prima che il suo mezzobusto fosse rintracciato e riportato al suo posto. Così, quando Rather attacca Bush sull’Irangate, il candidato replica in questo modo: ‘È ingiusto giudicare tutti i miei anni di vita politica solo sulla base di questo episodio controverso, di cui per giunta io non ho la minima responsabilità. Come reagirebbe lei, se la sua intera carriera fosse giudicata solo per i minuti in cui ha abbandonato il set del telegiornale?’. Rather è preso completamente alla sprovvista, si arrabbia, non si riprende più ed è Bush a uscire vittorioso dall’intervista” (8).
Tale strategia retorica si delinea nei seguenti estratti da un libro di Barack Obama. Nel primo emerge la tesi dell’esigenza di garantire a ciascuno un’assistenza sanitaria adeguata. Nel secondo si sostiene il diritto a un avvenire prospero non solo per le figlie di un senatore, ma pure per una piccola immigrata.
“Una notte di cinque anni fa, Michelle e io fummo svegliati dal pianto della nostra figlia più piccola, Sasha. All’epoca aveva solo tre mesi, quindi non era insolito che si svegliasse nel cuore della notte, ma qualcosa nel modo in cui piangeva e nel suo rifiuto di essere tranquillizzata ci preoccupò. Chiamammo infine il nostro pediatra, il quale acconsentì a riceverci nel suo studio alle prime luci dell’alba. Dopo averla visitata, dichiarò che poteva trattarsi di meningite e ci mandò immediatamente al pronto soccorso. Si scoprì che Sasha aveva proprio la meningite, benché in una forma che rispondeva agli antibiotici per endovena. In mancanza di una diagnosi tempestiva, la bambina avrebbe potuto perdere l’udito o forse perfino morire. Michelle e io passammo tre giorni all’ospedale guardando le infermiere che tenevano la nostra bambina ferma mentre un medico le praticava una puntura lombare, ascoltando i suoi strilli, pregando che non peggiorasse. Ora Sasha sta bene, è sana e felice come dovrebbe essere ogni bambino di cinque anni. Tuttavia rabbrividisco ancora quando ripenso a quei tre giorni: come il mondo per me si fosse ristretto in un unico punto e come non fossi interessato a nulla e a nessuno all’infuori delle quattro pareti di quella stanza d’ospedale… né al mio lavoro, né ai miei impegni, né al mio futuro. E mi viene in mente che, a differenza di Tim Wheeler, il metalmeccanico incontrato a Galesburg il cui figlio aveva bisogno di un trapianto di fegato, a differenza di milioni di americani che sono passati per situazioni simili, a quel tempo avevo un lavoro e un’assicurazione”.
“Una bambina sui sette-otto anni, seguita dai genitori, si avvicinò e mi chiese un autografo: a scuola stava studiando il governo, mi spiegò e l’avrebbe mostrato alla classe. Le domandai come si chiamasse. Mi rispose che il suo nome era Cristina e frequentava la terza; dissi ai suoi genitori che dovevano essere orgogliosi di lei e mentre osservavo la bimba tradurre in spagnolo le mie parole, mi resi conto che l’America non ha nulla da temere da questi nuovi venuti […] Il pericolo si presenterà se non riusciremo a riconoscere l’umanità di Cristina e della sua famiglia, se li priveremo dei diritti e delle opportunità che diamo per scontati, tollerando l’ipocrisia di una classe servile in mezzo a noi; o, più in generale, se resteremo con le mani in mano mentre l’America continua a diventare sempre più ineguale, un’ineguaglianza che segue distinzioni di razza e quindi alimenta la lotta razziale e alla quale – mentre nel Paese continua a crescere il numero delle persone di colore – né la nostra democrazia né la nostra economia potranno resistere a lungo. Non è il futuro che voglio per Cristina, mi dissi mentre osservavo lei e la sua famiglia indirizzarmi un cenno d’addio. Non è il futuro che voglio per le mie figlie” (9).
Alla tecnica argomentativa in oggetto si richiamò pure l’allora vicepremier Luigi Di Maio, a proposito dell’interruzione di un importante vertice, convocato l’11 luglio 2019 a Palazzo Chigi: “Stamattina il tavolo si è bloccato sulla regionalizzazione della scuola, perché noi crediamo che un bambino in Italia non scelga in quale regione nascere e non è giusto che si dica che, siccome una regione ha più soldi, quei bambini che nascono lì hanno più diritto all’istruzione di altri bambini che nascono in una regione, dove ci sono meno soldi. I bambini non c’entrano niente nell’autonomia e noi dobbiamo garantire l’unità della scuola come l’unità nazionale” (10).
Attraverso l’utilizzazione di una strategia retorica con riferimento all’infanzia – ciò che si rileva nelle considerazioni di Obama e di Di Maio – si ottiene un certo effetto sul piano emozionale. Si attua, dunque, un rapporto di complementarità tra il logos e il pathos, lo strumento persuasivo di ordine affettivo costituito – citiamo ancora Olivier Reboul – dall’“insieme di emozioni, passioni e sentimenti che l’oratore deve suscitare nel suo uditorio grazie al suo discorso” (11).
Secondo Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “la regola di giustizia fornirà il fondamento che permette di passare da casi precedenti a casi futuri e permetterà di presentare l’uso del precedente come argomentazione quasi-logica” (12).
Un esempio al riguardo si ricava dall’autobiografia di Bill Clinton: “Mentre i repubblicani intensificavano i loro attacchi contro di me [nell’ambito dell’affaire Monica Lewinsky], i miei sostenitori cominciavano a rialzare la testa”. Nello specifico, “Bernice King, figlia di Martin Luther […] disse che anche i grandi leader a volte si macchiano di gravi peccati e raccontò la storia di re David, che aveva fatto qualcosa di molto peggio rispetto a me: aveva organizzato la morte in battaglia del marito di Betsabea, soldato a lui devoto, per poterla sposare e poi aveva dovuto far ammenda per il suo peccato ed era stato punito. Non si capiva dove volesse andare a parare fino a quando non concluse il suo discorso così: ‘Sì, David commise un peccato terribile e Dio lo punì. Ma David rimase re’” (13).
Note
(1) Piazza Pulita, La7, puntata del 30 settembre 2021. Laura Boldrini ha osservato: “Non era una cosa spontanea, l’odio verso di me era costruito a tavolino da una macchina molto efficiente che lo alimentava per creare consenso. Beppe Grillo, a capo dei 5 Stelle, su Internet mi ha scatenato contro la furia dei follower. Salvini ha voluto associare il mio nome a crimini di sangue, chiamando ‘risorse boldriniane’ quegli immigrati colpevoli di stupri. Se il leader di un partito aizza, a pioggia lo seguono i suoi parlamentari, i consiglieri regionali e comunali, i sindaci e migliaia di follower. Monta un’onda, uno tsunami di odio” (Io Donna-Corriere della Sera, 30 ottobre 2021, p. 76).
(2) 7- Corriere della Sera, 3 dicembre 2021, p. 13).
(3) “Fiorello, il Natale e la regola di giustizia”, pubblicato nel nostro sito il 2 gennaio 2019.
(4) Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 237.
(5) Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, pp. 36, 70.
(6) Bill Clinton, My Life, Mondadori, 2004, pp. 868, 900, 901.
(7) Panorama, 5 settembre 1996, p. 79.
(8) Enrico Franceschini, I padroni dell’universo. L’America dei nuovi persuasori occulti, Bompiani, 1990, pp. 198-199.
(9) Barack Obama, L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo, Rizzoli, 2007, pp. 192-193 e 272-274.
(10) YouTube – Autonomia, Di Maio: “Tavolo bloccato su scuola: sia uguale per tutti”, 11 luglio 2019.
(11) Olivier Reboul, op. cit., p. 70.
(12) Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit., p. 238. Si veda “Il ‘precedente’ nella comunicazione politica e il caso Facebook”, pubblicato nel nostro sito il 3 maggio 2022.
(13) Bill Clinton, op. cit., pp. 874 e 875-876.