L’anafora nella comunicazione politica americana

Si fa presto a dire che la ripetizione stanca. Può essere invece una strategia retorica molto efficace. Avete presente “I have a dream”?

L’iterazione di uno o più vocaboli può essere retoricamente motivata e svolgere quindi una funzione argomentativa. Secondo Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, rientra tra le figure della presenza, che appunto “hanno l’effetto di aumentare il sentimento di presenza” (1).

Per Pierre Fontanier, s’impiegano “più volte gli stessi termini o una stessa costruzione, sia semplicemente per ornare il discorso, sia per esprimere con maggior forza ed energia la passione” (2).

Quando la ripetizione si attua all’inizio di enunciati, o di loro segmenti, successivi abbiamo l’anafora, che produce un parallelismo e conferisce dunque al testo un carattere di semplicità. Come ha scritto Giuseppe Antonelli in un saggio sul linguaggio politico, “dà l’idea ormai di una sorta di universale retorico sempre buono per ribadire uno stesso concetto o per legarne fra loro di disparati. C’è chi ne fa un uso più massiccio, chi vi ricorre con maggiore parsimonia, ma tutti i leader studiati se ne servono” (3).

A dimostrazione della sua importanza, si trova in celebri interventi, giudicati capolavori dell’oratoria politica del Novecento. Il seguente estratto (ricco anche di metafore e di antitesi) è ricavato dall’allocuzione, pronunciata da Martin Luther King al Lincoln Memorial di Washington, il 28 agosto 1963, durante una marcia nonviolenta per i diritti civili dei neri d’America: “Io ho un sogno che un giorno questa nazione si solleverà e vivrà nel vero significato del suo credo: ‘Consideriamo queste verità come evidenti: tutti gli uomini sono creati uguali’. Io ho un sogno, che un giorno, sulle rosse colline della Georgia, i figli di chi fu schiavo e i figli di chi li teneva in schiavitù potranno sedersi insieme al tavolo della fratellanza. Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato deserto, soffocato dall’ingiustizia e dall’oppressione, verrà trasformato in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno in un paese dove non saranno giudicati dal colore della loro pelle, ma dal contenuto del loro carattere. Io ho un sogno, oggi. Ho un sogno che un giorno lo stato dell’Alabama, retto dal Governatore che ora stilla dalle labbra parole di opposizione e di annientamento, verrà trasformato in un posto dove i ragazzini e le ragazzine nere potranno prendere per mano i ragazzini e le ragazzine bianche e camminare insieme come fratelli e sorelle. Io ho un sogno, oggi. Io ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni collina e montagna verrà abbassata, i luoghi scoscesi verranno appianati e quelli contorti raddrizzati, e la gloria del Signore verrà rivelata, e tutti i mortali la vedranno insieme. Questa è la nostra speranza. Ed è questa la fede con la quale ritorno al Sud. Con questa fede potremo estrarre dalla montagna della disperazione la pietra di speranza. Con questa fede potremo trasformare gli sgradevoli suoni della nostra nazione in una bella sinfonia di fratellanza. Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, manifestare per la libertà insieme, sapendo che un giorno saremo liberi” (4).

In qualche modo, con l’iterazione della frase “io ho un sogno”, il leader del movimento contro la segregazione razziale accentuava l’impressione di una “visione”, come a voler rendere reali programmi, che allora potevano apparire utopistici.

Il procedimento anaforico, come gli altri basati sulla ripresa di vocaboli, svolge la funzione di tecnica dell’insistenza, giacché può essere utilizzata dall’emittente del messaggio per attirare o ravvivare l’attenzione del ricevente: più precisa­mente, per sottolineare un determinato elemento, ossia per rafforzare il concetto che si vuole esprimere.

Edward Kennedy, intervenendo alla Convention nazionale democratica del 1980, a New York, la impiegò per evidenziare il possesso di una prerogativa indispensabile per chi pratica l’attività politica: l’interesse per le condizioni della gente comune. Ecco come lo fece: “In mezzo a voi, carissimi amici di tutto il Paese, ho ascoltato e imparato. Ho ascoltato Kenny Dubois, un soffiatore di vetri di Charleston, West Virginia, con dieci figli da mantenere, ma che ha perso il lavoro dopo trentacinque anni di attività, tre anni prima di poter chiedere la pensione. Ho ascoltato la famiglia Trachta, agricoltori dell’Iowa, che si chiede se potrà passare ai propri figli il benessere raggiunto e la loro terra. Ho ascoltato una nonna di East Oakland, che non ha più un telefono per chiamare i suoi nipoti perché, per pagare l’affitto del suo piccolo appartamento, ha dovuto rinunciarci. Ho ascoltato giovani disoccupati, studenti senza la possibilità di andare all’università e famiglie senza la possibilità di acquistare la casa. Ho visto le aziende chiuse e le catene di montaggio ferme di Anderson, Indiana, e di South Gate, California. Ho visto tanti – troppi – disoccupati alla ricerca disperata di un lavoro. Ho visto tante – troppe – famiglie di lavoratori nello sforzo disperato di proteggere il valore degli stipendi contro le devastazioni dell’inflazione” (5).

Per le elezioni presidenziali del 2008 Barack Obama ribadiva, con la figura retorica di cui stiamo trattando, la sua conoscenza della realtà, acquisita grazie al contatto diretto con le persone:

È stato qui, a Springfield, che ho visto che tutto ciò che è America tende a confluire […] È stato qui che abbiamo imparato a dissentire senza contrapporci […] È stato qui a Springfield che ho riconosciuto la fondamentale dignità del popolo americano, e mi sono convinto che, grazie a questa dignità, possiamo costruire un’America più fiduciosa”

“Lo so, sono stato per le strade, sono stato nei tribunali. Ho visto la legge soccombere sotto la pressione dei potenti e per l’assenza di una volontà politica a sostegno delle buone intenzioni, e ho visto un paese trascinato in guerra perché nessuno ha avuto il buon senso o il coraggio di fare domande scomode prima che inviassimo i nostri soldati a combattere”

“Io credo che per quanto sia difficile, il cambiamento di cui abbiamo bisogno stia arrivando. Perché l’ho visto. Perché l’ho vissuto. L’ho visto in Illinois, dove abbiamo garantito l’assistenza sanitaria a sempre più bambini e abbiamo portato sempre più famiglie dai sussidi al lavoro. L’ho visto a Washington, dove da opposti schieramenti siamo riusciti a collaborare […] E l’ho visto in questa campagna. Tra i giovani che hanno votato per la prima volta, e coloro che si sono lasciati coinvolgere di nuovo dopo lungo tempo. Tra i repubblicani che mai avrebbero pensato di scegliere un democratico alle primarie, e invece l’hanno fatto. L’ho visto tra gli operai pronti a ridurre il proprio orario di lavoro piuttosto che vedere i loro amici restare senza, tra i soldati che sono ritornati in servizio dopo un’amputazione, tra i vicini generosi che accolgono un estraneo quando si abbatte un uragano e le acque si ingrossano” (6).

Sia Kennedy, sia Obama, nei relativi estratti, seguono il criterio sensoriale, cioè registrano i dati emergenti attraverso i sensi (dell’udito e/o della vista). Il discorso assume quindi una funzione mimetica e si consolida l’effetto di realtà, prodotto già dalla ripetizione delle parole.

Con l’anafora Bill Clinton sottolineava la necessità per la collettività di farsi carico delle esigenze delle generazioni successive: “In questo preciso momento, in qualche località dell’America sta nascendo un bimbo. Assumiamoci la responsabilità di dare a quel bimbo una casa serena, una famiglia sana, un futuro promettente. Assumiamoci la responsabilità di dare a quel bimbo la possibilità di vivere appieno le doti che Dio gli ha dato. Assumiamoci la responsabilità di dare a quel bimbo un paese unito e non diviso, un paese di speranze e sogni infiniti; un paese che ancora una volta elevi il suo popolo e sia di esempio al mondo. Assumiamoci la responsabilità, l’impegno, il nostro ‘nuovo patto’” (7).

Così Al Gore, candidato democratico nel 2000 alla presidenza degli Stati Uniti, mise in risalto la sua adesione ai valori umani più elevati: “Ho prestato fede. Ho prestato fede alla mia nazione. Sono stato volontario nell’esercito. Ho servito in Vietnam. Ho prestato fede alla mia famiglia. Tipper e io siamo sposati da 30 anni. Abbiamo dedicato noi stessi ai nostri figli e, adesso, al nostro nipote di quasi un anno e mezzo. Ho prestato fede alla nostra nazione. Nove volte ho alzato il braccio per fare un giuramento sulla Costituzione e non ho mai violato quel giuramento” (8).

Colui che sarebbe diventato il primo presidente nero statunitense ha parlato, riprendendo un’espressione di Martin Luther King, di “feroce urgenza dell’adesso”. Ecco come ne ha accentuato l’idea con il procedimento anaforico:

Non possiamo aspettare per mettere a posto le nostre scuole. Non possiamo aspettare per lavori migliori, salari adeguati e pensioni di cui abbiamo bisogno ora. Non possiamo aspettare per fermare il riscaldamento globale, e non possiamo aspettare per porre fine alla guerra in Iraq.

È giunto il momento di sconfiggere il terrore […] È giunto il momento di lavorare per la pace in un mondo senza armi nucleari. È giunto il momento che ogni nazione d’Europa abbia l’opportunità di scegliere il proprio futuro, libera dalle ombre di ieri […] È il momento di consolidare la ricchezza creata dall’apertura dei mercati, e di condividerne i benefici in modo più equo […] È giunto il momento che il commercio sia libero ed equo per tutti. È giunto il momento di collaborare per rispondere alla richiesta di una nuova alba per il Medio Oriente […] È giunto il momento che il mondo sostenga i milioni di iracheni che stanno tentando di ricostruire la propria vita […] È giunto il momento di unirci tutti per salvare questo pianeta […] È giunto il momento di restituire ai nostri figli il loro futuro […] Ed è giunto il momento di ridare speranza a chi è rimasto indietro nel mondo globalizzato”

È giunto finalmente il tempo di mantenere la promessa di un’assistenza sanitaria sostenibile e accessibile a ogni singolo americano […] È giunto il tempo di dare sostegno alle famiglie con il diritto ai congedi e alle aspettative per malattia, perché nessuno in America dovrà più essere costretto a scegliere se tenersi l’impiego o assistere un figlio malato o un genitore sofferente. È giunto il tempo di cambiare il nostro diritto fallimentare, e garantire che le vostre pensioni vengano prima delle indennità dei dirigenti; e di salvaguardare la copertura previdenziale per le future generazioni. Ed è giunto il tempo di realizzare la promessa di un pari salario per una pari giornata di lavoro” (9).

Nei seguenti passi sempre ricavati dall’elocuzione di Barack Obama la ripetizione di termini coincide con l’eziologia, ossia l’“evidenziazione delle cause”. Secondo Armando Plebe e Pietro Emanuele, “si tratta del dirigere la propria argomentazione nella direzione dell’attribuire uno o più fatti accaduti alle cause che si ritiene opportuno evidenziare in luogo di altre possibili cause degli stessi effetti” (10):

“È stato qui che abbiamo imparato a dissentire senza contrapporci – poiché un compromesso è sempre possibile quando si condividono i principi da non compromettere mai; e quando si è disposti ad ascoltarsi a vicenda, si può prendere dagli altri il meglio e non il peggio. Ecco perché siamo riusciti a riformare un sistema che prevedeva il ricorso alla pena di morte e che non funzionava più. Ecco perché siamo riusciti a garantire ai bambini bisognosi un’assicurazione sulla salute. Ecco perché abbiamo concepito un regime di tassazione più giusto e adeguato alle famiglie di operai, ed ecco perché abbiamo approvato riforme etiche che i cinici dicevano non sarebbero mai passate […] Ed ecco perché […] mi presento a voi oggi per annunciare la mia candidatura come presidente degli Stati Uniti”

“Oggi siamo in presenza di giganti sulle cui spalle noi ci muoviamo, individui che si sono battuti, non solo in nome degli afroamericani […] È grazie alla loro marcia che la generazione successiva non ha versato troppo sangue. È grazie alla loro marcia che noi abbiamo eletto consiglieri e deputati. È grazie alla loro marcia che io ho ricevuto il tipo d’istruzione che ho avuto, una laurea in legge, un posto al Senato dell’Illinois e infine al Senato degli Stati Uniti. È grazie alla loro marcia che io mi trovo oggi qui davanti a voi” (11).

Il procedimento anaforico veniva utilizzato da lui pure per dare rilievo a una parola tematica della sua campagna elettorale del 2008:

È la promessa secondo cui ciascuno di noi ha la libertà di fare ciò che vuole della propria vita, ma tutti quanti abbiamo il dovere di trattare gli altri con dignità e rispetto. È la promessa secondo cui il mercato deve remunerare l’iniziativa, l’innovazione e la crescita, ma le aziende devono assumersi la responsabilità di creare posti di lavoro in America, di farsi carico dei lavoratori americani, e di operare nel rispetto delle regole. È la promessa secondo cui il governo non può risolvere tutti i nostri problemi, ma ha il dovere di fare tutto ciò che noi non possiamo fare da soli”

È una promessa che faccio alle mie figlie quando rimbocco le loro coperte la sera, e una promessa che voi fate ai vostri – una promessa che ha portato migranti ad attraversare gli oceani e pionieri a viaggiare verso l’Ovest; una promessa che ha spinto operai a fare i picchetti e donne a conquistare il diritto di voto. Ed è una promessa che in questo stesso giorno di quarantacinque anni fa ha spinto americani di ogni parte del paese a ritrovarsi tutti in un viale di Washington, davanti al monumento a Lincoln, per ascoltare un giovane predicatore della Georgia che parlava del suo sogno” (12).

In un’allocuzione, in occasione delle medesime elezioni, così Obama si rivolse al suo uditorio: “Siate forti e coraggiosi di fronte all’ingiustizia. Siate forti e coraggiosi di fronte all’odio e al pregiudizio, di fronte alla disoccupazione, alla disperazione e allo sconforto. Siate forti e coraggiosi, fratelli e sorelle qui radunati, di fronte alle nostre paure e ai nostri dubbi, di fronte allo scetticismo, al cinismo, di fronte a un fiume immenso. Siate forti e coraggiosi, e attraversiamo assieme il ponte verso la terra promessa” (13).

In qualche modo tale brano sembra confermare, a proposito della “retorica e stilistica ripetitiva”, una riflessione di Mario Wandruszka: “In America ha radici molto profonde: nel sermone puritano e nel discorso pubblico della nascente democrazia”, nei quali, con l’iterazione delle “parole più povere”, si persegue “una voluta semplicità, una finta ingenuità” (14).

A volte nell’elocuzione obamiana si riscontra una coppia correlata di anafore:

Di fronte alla guerra, voi credete che può esserci la pace. Di fronte alla disperazione, voi credete che può esserci la speranza. Di fronte a una politica che vi ha escluso, che vi ha detto di starvene buoni, che ci ha diviso troppo a lungo, voi credete che possiamo essere un solo popolo, che possiamo ottenere tutto il possibile e costruire un’unione ancora migliore”

Di fronte alla tirannia, la speranza ha spinto un manipolo di coloni a ribellarsi a un impero […] Di fronte alla guerra e alla Grande Depressione, la speranza ha guidato la più grande delle generazioni a liberare un continente e a guarire una nazione. Di fronte all’oppressione, la speranza ha indotto giovani donne e uomini a sedersi al bancone di un locale, a sfidare gli idranti e a marciare nelle strade di Selma e Montgomery in nome della libertà”

Dicevano che non potevamo competere senza prendere soldi dalle lobby di Washington. Ma voi avete dimostrato che si sbagliavano, quando abbiamo raccolto il maggior numero di piccole sottoscrizioni da parte del maggior numero di americani di qualunque altra campagna elettorale della storia. Dicevano che non ce l’avremmo fatta senza il pieno appoggio dell’establishment di Washington. Ma voi avete dimostrato che si sbagliavano, quando abbiamo messo in piedi un movimento di base che potrebbe cambiare per sempre la faccia della politica americana” (15).

Alla stessa struttura sintattica ricorse il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy: “Quando il potere conduce l’uomo all’arroganza, la poesia gli ricorda i suoi limiti. Quando il potere semplifica l’area della conoscenza umana, la poesia ricorda all’uomo della ricchezza e della diversità dell’esistenza. Quando il potere corrompe, la poesia purifica” (16).

Con l’epifora, invece, si ripete uno o più termini alla fine di enunciati, o di loro segmenti, successivi. Se ne trovano occorrenze in due memorabili interventi: quello, già citato, di Martin Luther King e quello tenuto dal presidente sudafricano Nelson Mandela all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel settembre del 1998. Ecco i passi relativi:

“Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, resistere per la libertà insieme, consapevoli che un giorno saremo liberi”

“Continuerò a credere che nel mio Paese e nella mia regione, nel mio continente e nel mondo, sia nata una generazione di governanti che non permetteranno che le persone siano private della loro libertà, come è accaduto a noi; che siano trasformate in rifugiati, come è accaduto a noi; che siano condannate a essere affamati, come è accaduto a noi; che siano privati della loro dignità di uomini, come è accaduto a noi”.

Attraverso la combinazione dei due procedimenti, di cui abbiamo parlato finora, si attua la simploche. La utilizzò John F. Kennedy nella straordinaria allocuzione che pronunciò a Berlino, il 26 giugno 1963: “Ci sono molte persone al mondo che non capiscono, o che dicono di non capire, quale sia la grande differenza tra il mondo libero e il mondo comunista. Che vengano a Berlino. Ce ne sono alcune che dicono che il comunismo è l’onda del progresso. Che vengano a Berlino. Ce ne sono alcune che dicono, in Europa come altrove, che possiamo lavorare con i comunisti. Che vengano a Berlino. E ce ne sono anche certe che dicono che, sì, il comunismo è un sistema malvagio, ma permette progressi economici. Che vengano a Berlino” (17).

Le tre forme espressive basate sulla ripetizione, di cui abbiamo trattato, solitamente includono un’ulteriore figura della presenza, l’accumulazione (o enumerazione o elencazione), che consiste in una serie di vocaboli o gruppi di vocaboli o frasi, allo scopo di rendere più efficace il testo. In effetti si favorisce la percezione dei singoli elementi indicati (persone, oggetti, azioni, avvenimenti, situazioni).

Note

(1) Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 189.

(2) Pierre Fontanier, Les figures du discours, 1991, p. 329, citato in Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, 1991, p. 196.

(3) Giuseppe Antonelli, “Sull’italiano dei politici nella Seconda Repubblica”, in Serge Vanvolsem (a cura di), L’italiano oltre frontiera, atti del V Convegno Internazionale, Lovanio, 22-25 aprile 1998, Leuven University Press – Cesati, 2000, vol. I, p. 233.

(4) Riportato in Ferdinando Sallustio, Belle parole. I grandi discorsi della storia dalla Bibbia a Paperino, Bompiani, 2004, pp. 312-313.

(5) Riportato in Mario Rodriguez, Una parola vale più di mille immagini, in sito web.

(6) Barack Obama, La promessa americana. Discorsi per la presidenza, Donzelli, 2008, pp. 4 e 5, 181, 126.

(7) Riportato in Bill Clinton, My Life, Mondadori, 2004, p. 447.

(8) Riportato in Cristian Vaccari, Il discorso politico nelle elezioni presidenziali Usa 2000, in sito web.

(9) Barack Obama, op. cit., pp. 121, 159-161, 174-175.

(10) Armando Plebe, Pietro Emanuele, Manuale di retorica, Universale Laterza, 1988, pp. 123-124.

(11) Barack Obama, op. cit., pp. 4-5, 79 e 80.

(12) Barack Obama, op. cit., pp. 172 e 182.

(13) Barack Obama, op. cit., pp. 90-91.

(14) Mario Wandruszka, “Repetitio e variatio”, in AA.VV., Attualità della retorica. Atti del I Convegno italo-tedesco (Bressanone, 1973), Liviana, 1975, p. 110.

(15) Barack Obama, op. cit., pp. 3, 126-127 e 127. Nel primo estratto si osserva anche l’impiego dell’antitesi (guerra/pace, disperazione/speranza).

(16) Riportato in Anna Mazzone, “Tutte le frasi che hanno fatto di JFK un mito”, in Panorama, 22 novembre 2013.

(17) Si è seguita la traduzione riportata in www.myenglishschool.it/magazine/2015/11/24/ich-bin-ein-berliner/. Sull’uso di altri strumenti della retorica in tale discorso, si veda l’articolo “Sono un berlinese”, pubblicato nel nostro sito il 17 luglio 2018.