La figura retorica dell’anafora è un classico dell’oratoria politica. E non solo
L’anafora consiste nella ripetizione di una o più parole all’inizio di enunciati, o di loro segmenti, successivi. Per mezzo del parallelismo così prodotto, si conferisce al testo un’apparenza di semplicità. Inoltre, al pari di ogni forma d’iterazione di termini, svolge la funzione di tecnica dell’insistenza e dunque può essere utilizzata dall’emittente del messaggio per suscitare l’interesse del ricevente e per rafforzare l’idea che si vuole esprimere. Questa figura retorica si trova spesso negli interventi degli uomini politici degli Stati Uniti, come abbiamo visto in un precedente articolo (1).
Nel nostro Paese, vi ricorreva già Benito Mussolini. Lo fece, per citare giusto un esempio, davanti ai reduci di guerra, con l’obiettivo evidentemente di attuare una totale sintonia con loro: “Ognuno di noi è certamente stato infangato da quella terribile terra rossa del Carso, ognuno di noi ha sofferto i geli ed i venti delle altitudini alpine, ognuno di noi ha vissuto in dimestichezza quotidiana colla vita e la morte” (2).
In tempi più recenti, se ne contano tre occorrenze in una lettera di Matteo Renzi a Beppe Grillo (3), nell’ambito di una polemica, provocata da un’inchiesta giudiziaria, nella quale era coinvolto il genitore dell’ex segretario del Partito democratico. Con il procedimento anaforico, l’attuale leader di Italia Viva voleva sicuramente rendere più efficace l’impiego dell’elemento persuasivo di ordine affettivo dell’ethos, ossia “il carattere che deve assumere l’oratore per accattivarsi l’attenzione e guadagnarsi la fiducia dell’uditorio” (4). Più precisamente offriva di sé prima una rappresentazione istituzionale e poi una famigliare:
“Da uomo delle istituzioni ho detto che sto dalla parte dei giudici. Ho detto provocatoriamente che se mio padre fosse colpevole meriterebbe – proprio perché mio padre – il doppio della pena di un cittadino normale. E ho detto che spero si vada rapidamente a sentenza perché le sentenze le scrivono i giudici, non i blog e nemmeno i giornali”
“Quando hai giurato sulla Costituzione, quando ti sei inchinato alla bandiera, quando hai cantato l’inno nazionale davanti a capi di stato stranieri rimani uomo delle Istituzioni anche se ti sei dimesso da tutto”
“È semplicemente mio padre, mio babbo. Mi ha tolto le rotelline dalla bicicletta, mi ha iscritto agli scout, mi ha accompagnato trepidante a fare l’arbitro di calcio, mi ha educato alla passione per la politica nel nome di Zaccagnini, mi ha riportato a casa qualche sabato sera dalla città, mi ha insegnato l’amore per i cinque pastori tedeschi che abbiamo avuto, mi ha abbracciato quando con Agnese gli abbiamo detto che sarebbe stato di nuovo nonno, mi ha pianto sulla spalla quando insieme abbiamo accompagnato le ultime ore di vita di nonno Adone, mi ha invitato a restare fedele ai miei ideali quando la vita mi ha chiamato a responsabilità pubbliche”.
In qualche modo il contenuto dell’ultimo estratto richiama un vecchio annuncio pubblicitario (specialmente in alcune sue parti), che era stato ideato per una marca di whisky, come lettera di ringraziamento (“A papà”), dal grande copywriter britannico David Abbott. Vale la pena riprodurlo integralmente, in quanto alla base della sua costruzione è chiaramente l’anafora (5):
“Perché ti conosco da una vita”.
“Perché una bici Rudge rossa una volta fece di me il bambino più felice del quartiere”.
“Perché mi hai lasciato giocare a cricket sul prato”.
“Perché ballavi in cucina con una tovaglia da tè intorno alla vita”.
“Perché il tuo libretto di assegni era sempre in ballo a causa mia”.
“Perché casa nostra era sempre piena di libri e risate”.
“Per tutti i sabati mattina persi a guardare un ragazzotto che giocava a rugby”.
“Perché non hai mai preteso troppo da me e non mi hai lasciato andar via con troppo poco”.
“Per tutte le notti passate a lavorare alla tua scrivania mentre io me ne stavo a letto a dormire”.
“Per non avermi mai messo in imbarazzo raccontando storie sulle api e le cicogne”.
“Perché so che porti nel portafoglio un ritaglio di giornale ingiallito che parla della mia borsa di studio”.
“Perché mi hai sempre fatto lucidare i tacchi delle scarpe con la stessa cura riservata alla tomaia”.
“Perché ti sei ricordato del mio compleanno 38 volte su 38”.
“Perché ancora mi abbracci quando ci vediamo”.
“Perché compri ancora dei fiori a mia madre”.
“Perché hai più capelli bianchi della media e so chi ha dato una mano a farteli venire”.
“Perché sei un nonno fantastico”.
“Perché hai fatto sentire mia moglie come una di famiglia”.
“Perché sei voluto andare al McDonald’s l’ultima volta che ti ho invitato a pranzo”.
“Perché c’eri sempre quando ho avuto bisogno di te”.
“Perché mi hai sempre lasciato fare i miei errori senza dire mai ‘te l’avevo detto’”.
“Perché fai ancora finta che gli occhiali ti servano solo per leggere”.
“Perché non ti dico ‘grazie’ tutte le volte che dovrei”.
“Perché è la festa del papà”.
“Perché se Chivas Regal non te lo meriti tu, chi lo meriterebbe?”.
In una diversa occasione, in polemica con il capo politico dei pentastellati Luigi Di Maio, a proposito di condotte riprovevoli del genitore Antonio (inosservanza della regolamentazione previdenziale delle attività lavorative, illeciti urbanistici, debiti fiscali), Renzi, nuovamente riferendosi alla vicenda giudiziaria del suo papà e utilizzando il procedimento anaforico, ha rievocato:
“Rivedo il fango gettato addosso a mio padre. Rivedo la sua vita distrutta dalla campagna d’odio dei 5 Stelle e della Lega. Rivedo mio padre che trova le scuse per non uscire di casa perché non vuole incrociare gli sguardi dopo che i media lo presentano come già colpevole. Rivedo mio padre sul letto d’ospedale dopo l’operazione al cuore. Rivedo mio padre che non si ferma all’Autogrill o resta in macchina per non essere riconosciuto. Rivedo mio padre preoccupato per cosa diranno a scuola i compagni di classe dei nipoti. Rivedo un uomo onesto schiacciato dall’aggressione social coordinata da professionisti del linciaggio mediatico” (6).
Come negli esempi citati finora (e più avanti), l’iterazione di certi vocaboli coincide con l’accumulazione (o enumerazione o elencazione), che consiste nella successione di parole o gruppi di parole o frasi, allo scopo di rendere più efficace il testo. Invero favorisce la percezione ed è dunque possibile considerarla come una figura della presenza, avendo “per effetto di rendere attuale alla coscienza l’oggetto del discorso” (7). Per di più si rafforza una simile impressione di realtà grazie al termine “rivedo” (se ne contano ben sette occorrenze), che rientra nella sfera sensoriale della vista.
Inoltre l’ex presidente del Consiglio è ricorso al pathos, l’elemento persuasivo di ordine affettivo con cui l’emittente del messaggio mira a originare vari sentimenti nel ricevente al fine di coinvolgerlo maggiormente nella comunicazione. Cicerone nelle Partitiones oratoriae sosteneva: “Ci sono due tipi di argomentazione: uno tende direttamente a convincere, l’altro vuol arrivare allo scopo indirettamente, suscitando emozioni” (8).
Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca hanno rilevato: “Per creare l’emozione è indispensabile la specificazione, poiché le nozioni generali, gli schemi astratti non agiscono sull’immaginazione” (9). Infatti l’ex segretario del PD indugia su momenti, indicativi della sofferenza del genitore, per muovere la compassione.
La competizione per le elezioni del 21 aprile 1996 fu particolarmente combattuta dagli opposti schieramenti di centrosinistra e di centrodestra. Ne deriva il suo notevole interesse nell’ottica dell’analisi retorica. In tale ambito, fra tutte le peculiari forme espressive, poteva mancare l’anafora? Certamente no! Ecco come la impiegava Silvio Berlusconi per mettere in risalto, di volta in volta, la propria idoneità ad apportare profonde innovazioni nel governo dello Stato, per converso l’inadeguatezza degli avversari, il carattere dei suffragi appartenenti alla sua coalizione, i suoi programmi:
“Per questo sono sceso in campo: per cambiare il modo di fare politica, per cambiare il modo di affrontare i problemi nel concreto e non a parole, per cambiare davvero questo Paese” (Il fatto, Rai-Uno, 22 febbraio 1996. Riportato in Corriere della Sera, 23 febbraio 1996, p. 4)
“Non si può affidare un lavoro come questo a un funzionario di partito che è esperto in comizi, non si può affidare a un politicante esperto in chiacchiere; non si può affidare a un professore di università esperto in teorie; non si può affidare a un burocrate esperto in regolamenti” (Porta a porta, Rai-Uno, 11 marzo 1996. Riportato in Maria Squarcione, “Il ‘flusso retorico’ del cavaliere: Berlusconi tra ieri e oggi”, in sito web)
“Sono voti moderati, voti riformatori, voti di italiani che credono in un quadro di valori democratico e liberale. Voti di cittadini che non vogliono restaurare il potere degli apparati e della vecchia politica” (Panorama, 7 marzo 1996, p.19)
“Vogliamo ancora ridurre le tasse, ridurre la spesa pubblica attraverso l’eliminazione degli sprechi, ridurre l’inflazione e, quindi, ridurre il costo del denaro” (Panorama, 7 marzo 1996, p. 17).
Mentre Romano Prodi così accentuava le critiche al suo più diretto antagonista:
“Il modello al quale […] Silvio Berlusconi ha detto di volersi ispirare è quello del governo conservatore di Alain Juppé in Francia […] Adesso sappiamo che, con Silvio Berlusconi di nuovo a Palazzo Chigi, avremo un Presidente del Consiglio che si ispirerà ai valori ed al metodo di lavoro del suo collega di Parigi. Avremo un Presidente del Consiglio che, nel campo della politica estera, […] non esiterà a portare l’Italia in una posizione di isolamento analoga a quella nella quale si è trovata la Francia grazie agli esperimenti nucleari a Mururoa. Avremo un Presidente del Consiglio che, nel campo della politica sociale, cercherà di imporre senza alcun preventivo dibattito i propri programmi e rischierà di scatenare una protesta popolare altrettanto vasta quanto quella che in autunno ha per settimane e settimane paralizzato la Francia” (La Repubblica, 28 marzo 1996, p. 2).
“Facciamo per un momento finta di dimenticare tutto quello che abbiamo già visto del Silvio Berlusconi governante, quell’intreccio di interessi pubblici e privati tra Palazzo Chigi e Arcore che ha portato all’assalto della Rai e della Magistratura. Facciamo anche finta di scordare il peso determinante di Alleanza Nazionale, con il suo statalismo, la sua profonda avversione alle privatizzazioni e all’Europa. E, per concludere, facciamo anche finta che Silvio Berlusconi sia davvero il candidato premier del Polo, accantonando la possibilità, sempre più concreta, che l’uomo per il governo possa essere Gianfranco Fini” (La Repubblica, 28 marzo 1996, p. 2)
“È da irresponsabili girare per l’Italia facendo promesse grandi e diverse di fronte ad ogni platea, sapendo che queste promesse non hanno alcuna possibilità di essere mantenute tutte insieme. Sapendo, addirittura, che queste promesse sono tra di loro in contraddizione. Non si possono promettere detassazioni a tutti e su tutto. Non si può al Sud promettere sicurezza per ogni posto di lavoro pubblico e al Nord bollare come ‘improduttivi’ sette dipendenti pubblici su dieci” (La Repubblica, 28 marzo 1996, p. 2).
A una coppia correlata di anafore ricorsero Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi per dare maggior rilievo, rispettivamente, alle incoerenze fra gli impegni presi dallo schieramento avverso e al rimprovero mosso a Lamberto Dini per non aver rispettato gli obblighi precedentemente assunti. Ecco i passi relativi:
“Va dai commercianti e dice: sì, bisogna diminuire le tasse. Va al Sud e dice: sì, bisogna aumentare la spesa sociale. Va dagli artigiani veneti e dice che nei ministeri dove ci sono dieci impiegati ne bastano tre. Va davanti ai ministeri e dice che il lavoro non si tocca” (La Repubblica, 20 marzo 1996, p. 4)
“Disse che faceva un governo tecnico e invece l’ha trasformato in un partito; diceva che si sarebbe gettato anima e corpo negli affari europei, ricordate il mito del Semestre intangibile? e invece eccolo tuffarsi nella campagna elettorale. A me aveva detto e ridetto che mai e poi mai sarebbe andato a sinistra: e invece adesso si allea con l’Ulivo” (La Repubblica, 28 febbraio 1996, p. 4).
La loro efficacia deriva pure da altri procedimenti.
D’Alema adopera due figure retoriche: la personificazione, che consiste nel fare di un essere inanimato o astratto una persona reale, dotata di vita e la prosopopea, con sui si dà la parola a un personaggio assente o a una cosa personificata. Infatti si rappresenta la compagine di centrodestra come un individuo, che cammina e parla.
Berlusconi utilizza l’iconismo morfologico, costituito dallo sfruttamento delle potenzialità imitative della realtà, possedute appunto dalle strutture morfologiche della lingua. Nel caso specifico si attua attraverso il raddoppiamento di certi termini per evidenziare caratteri come la ripetitività (“detto e ridetto”) e l’intensità (“mai e poi mai”). Inoltre il suo messaggio contiene una frase interrogativa fàtica per accentuare il contatto con il destinatario e per coinvolgerlo maggiormente nel discorso (“ricordate il mito del Semestre intangibile?”).
Note
(1) “L’anafora nella comunicazione politica americana”, pubblicato il 6 novembre 2020.
(2) Riportato in Paola Desideri, Teoria e prassi del discorso politico, Bulzoni, 1984, p. 91.
(3) “Caro Beppe Grillo ti scrivo”, in Il blog di Matteo Renzi. In proposito è possibile leggere un articolo pubblicato nel nostro sito il 17 maggio 2017 (“Strumenti retorici nella risposta di Matteo Renzi a un attacco di Beppe Grillo”).
(4) Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, p. 21.
(5) Traduzione in Giuseppe Mazza (a cura di), Cose vere scritte bene, Franco Angeli, 2016, p. 113.
(6) In Facebook.com/matteorenziufficiale, 25 novembre 2018. Cfr. l’articolo “Retorica nella polemica politica: il caso Antonio Di Maio”, pubblicato nel nostro sito il 18 marzo 2019.
(7) Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 189.
(8) M. Tullio Cicerone, Partitiones oratoriae, paragrafo 46. Riportato in Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit., p. 536.
(9) Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit., p. 159.