Le sardine hanno fatto una virata nel mare della politica, insediandosi nel linguaggio mediatico-politico dell’Italia, un paese sul Mediterraneo che finora le aveva apprezzate solo a livello culinario, non metaforico.
Paperon de’ Paperoni a pesca di sardine
Il 3 maggio di ogni anno a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, piovono sardine. La notizia, vera o (più probabilmente) falsa mi si è accesa come un lampo nella mente ora che di sardine molto si parla. L’avevo letta da piccola in una storia di paperi (pubblicata in due episodi sui numeri di «Topolino» 174-175 usciti il 10 e il 25 novembre 1957, grazie Internet!). Una storia bellissima, scritta e disegnata non da Carl Barks ma da Romano Scarpa (ancora grazie, memoria artificiale), in cui, e adesso passo alla memoria naturale, Paperon de’ Paperoni doveva alimentare il suo uccellino da compagnia, Kaibì, che mangiava mezza sardina fresca a settimana (perfetto per l’avarastro). Ma a Paperopoli non si trovano sardine, e il piccolo Kaibì rifiuta le sardine in scatola, rischiando la morte per inedia – ricordo perfettamente l’espressione schifata dell’uccellino disegnato da Scarpa, noi bambini d’antan fumetti e libri li leggevamo e rileggevamo sino a saperli a memoria -. Così Paperone assolda i nipoti per accompagnarlo con una nave in mare aperto: incapperanno in banchi di sardine che saltano all’impazzata inseguite da un galeone volante, guidato dal fantasma del capitano McPaper. Sfamato l’uccellino con la sua mezza sardina, i paperi si ritrovano dopo qualche giorno a Tegucigalpa. L’uccellino è ancora affamato, ma a sfamare sia lui sia le masse di poveracci giunti d’ogni dove con le loro ceste – una reminiscenza del miracolo evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci? – , è la famosa pioggia di sardine (cui provvedeva lo stesso capitano Pap McPaper con un procedimento di espiazione che farebbe la felicità di Ian McEwan).
Perché le sardine sono, un po’ come le castagne ad altre latitudini, cibo della povera gente. Abbondante, economico, nutriente. E infatti i poveri del fumetto se ne andavano scarmigliati e felici reggendo ceste traboccanti di sardine.
Le sardine sono «pesce azzurro», così chiamate per la colorazione dorsale tendente al blu-verde, mentre quella ventrale è argentea, che si spostano nel mare come se fossero un unico organismo. Come gli sgombri, le alici e le aringhe. Sono caposaldo della cucina povera, abituate, dalle nostre parti, a essere infarinate e fritte oppure cosparse di pangrattato e prezzemolo e infilate in forno, anche a essere seccate, o conservate sott’olio in scatolette, dove se ne stanno tutte strette le une alle altre come sardine. Da poco le sardine hanno fatto una virata nel mare della politica, insediandosi nel linguaggio mediatico-politico dell’Italia, un paese sul Mediterraneo che finora le aveva apprezzate solo a livello culinario, non metaforico. Ma sarà sotto questa prospettiva che ora le osserveremo.
Cenni di metaforica politica degli animali
Quanti animali infatti nel linguaggio della politica antico e moderno, dal lupo di Esopo alle api di Mandeville, dai maiali di Orwell alle cimici e ai pidocchi di Hitler. Il fatto è che la lunga frequentazione dell’uomo con gli animali – oggi nei paesi industrializzati praticamente scomparsa – lo ha portato ad attingere continuamente da essi paragoni, simboli e metafore per illustrare il proprio comportamento. Pensando poi alla metaforica animale nel suo aspetto più squisitamente politico, si vede che la bestia è usata per incarnare costumi e atteggiamenti da seguire o da evitare, in una dimensione che è politica ed etica insieme
La citazione più famosa di questo uso degli animali per metaforizzare rapporti politici è probabilmente quella usata da Machiavelli nel cap. XVII del Principe, del 1513: «Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi». La frase non necessita di grandi spiegazioni: è immediatamente comprensibile, breve, efficace, come deve essere ogni metafora che si rispetti. Machiavelli ci sta dicendo: chi vuole governare con successo impari a comportarsi come il leone (con la forza e la ferocia) e come la volpe (con l’astuzia); o meglio, come la tradizione della metaforica animale, con molto dispendio di fantasia e poco rispetto dell’osservazione scientifica, ha immaginato il comportamento della volpe e del leone.
Già, perché il modo in cui vengono presentati gli animali della politica corrisponde non tanto al loro comportamento scientificamente studiato dall’etologia, quanto all’interpretazione che ne compie l’immaginazione umana, catalogandoli secondo tratti precisi: la stupidità dell’asino, la forza e il potere dell’orso o del leone, la timidezza della cerva, la mansuetudine dell’agnello. Questo anche se uno dei nodi teorici più interessanti e intriganti delle metafore, non soltanto animali, consiste nella loro ambivalenza; talché alcune specie animali sono evocate a designare aspetti negativi e aspetti positivi dello stesso tratto comportamentale: il cane, per esempio, è esemplare per la fedeltà ma anche per l’adulazione; la colomba per la modestia e per la lascivia; il serpente per l’inganno e per la saggezza; il cavallo è metafora della libertà e dell’addomesticamento; l’aquila ha la vista lunga ma è anche un rapace… Si tratta quasi sempre di animali terrestri, talvolta abitatori dell’aria, ma in qualche modo vicini agli uomini, che possono essere visti e toccati: mammiferi, uccelli, insetti, anche rettili (il coccodrillo!).
Polpi, cetacei e sardine
E i pesci? Dove mettiamo gli abitatori del mare e delle acque dolci, pesci, cetacei, molluschi? Hanno un posto anche loro in politica? Sì, certo, anche se decisamente limitato rispetto ai loro colleghi d’aria e di terra. La balena di Giona, Moby Dick, buoni per paragoni vari; il pescecane, quello sì ben presente, ma più afferente al mondo della finanza. Poi c’è la piovra, buona per rappresentare organizzazioni segrete tentacolari come la mafia, anche se si dovrebbe parlare più propriamente di calamaro o di polpo gigante, giacché piovra è nome di fantasia usato dai pescatori brètoni cui diede lustro Victor Hugo ne I lavoratori del mare, del 1866, e che designava un mostro marino fantastico, una sorta di idra che si attaccava alla vittima con le sue ventose e contro la quale lottava l’eroe del romanzo.
E le sardine? Innanzitutto le sardine fanno parte, socialmente e politicamente, dei «pesci piccoli» (questa non è una classificazione zoologica). Quelli che vengono divorati dai pesci grandi, secondo una sorta di regola naturale così illustrata nientemeno che da Spinoza nel cap. XVI del Trattato teologico-politico, (1670):
«Per diritto e istituto naturale, non intendo altro che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un certo modo. Così, per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi a mangiare i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli».
Il diritto della natura fa dunque sì che i pescecani siano autorizzati a mangiarsi le sardine. Questo però, spiega Spinoza, non vale nel diritto dello Stato, dove si vive secondo i dettami della ragione e della legge. Qui anche alle sardine sono riconosciuti particolari diritti, tra i quali il diritto di assemblea, di parola, di raduno. Si chiama, se stato di diritto, parte integrante della democrazia. Le sardine sono pesci piccoli che si muovono in branco, liberi di muoversi, di spostarsi e di migrare in banchi, in mare aperto. E che augurano la libertà di migrare e spostarsi anche alle persone tutte.
Questo articolo di Francesca Rigotti è stato pubblicato su sole24ore.com il 29 novembre 2019. Lo pubblichiamo per gentile concessione della testata e dell’autrice.