Quando la politica prende una “brutta china”

In un articolo dedicato alle fallacie, facendo riferimento al “re indiscusso del genere: Matteo Salvini”, Flavia Trupia ha osservato: “Sulla sua pagina Facebook compare un esempio di fallacia della brutta china, anche detta slippery slope. Si tratta di un ragionamento concatenato che, seguendo una falsa logica, fa apparire come inevitabili il verificarsi di conseguenze disastrose: ‘Si inizia con una sigaretta e si finisce drogati’ dicevano preoccupate le nonne. ‘Non possiamo accogliere tutta l’Africa in Italia, PRIMA GLI ITALIANI!’ proclama Salvini (novello lettore del Vangelo) su Facebook. Esasperazioni da social media: è improbabile che politiche di accoglienza diverse da quelle che ha in mente il leader della Lega portino l’intera popolazione africana nel nostro paese” (1).

Tuttavia è possibile ricorrere a questa forma (distorta) di argomentazione non in maniera aggressiva, ma con un tono umoristico, allo scopo di polemizzare con l’avversario, però ridicolizzandolo.

Nella campagna elettorale del 1996, Massimo D’Alema affermò: “Il Polo è impegnato in una rincorsa senza principi e senza obblighi di fare i conti: taglia una tassa, poi un’altra, poi detassa i Bot, vedrete che una settimana prima del voto lanceranno la proposta di rimborso agli evasori” (Corriere della Sera, 22 marzo 1996, p. 2).

Inoltre, in un dibattito nella trasmissione televisiva della Rai Linea Tre, dopo aver sostenuto che “chi aspira a governare non può delegittimare sistematicamente la magistratura”, così polemizzò con Silvio Berlusconi: “Se si diffonde la convinzione che le sentenze siano complotti, quando un vigile fischia, il cittadino penserà che sia un attentato alla sua libertà” (Corriere della Sera, 13 aprile 1996, p. 3).

L’intenzione di fare apparire ridicolo un antagonista emerge chiaramente nel seguente passo, tratto dall’autobiografia di Bill Clinton: “[Il repubblicano Newt] Gingrich rimproverava i democratici e i loro valori ‘permissivi’ per aver creato un clima morale tale da incoraggiare una tormentata signora del South Carolina, Susan Smith, ad annegare i suoi due figli nell’ottobre 1994. Quando risultò che l’instabilità mentale della Smith era da ricondursi agli abusi sessuali cui era stata sottoposta da bambina dal patrigno ultraconservatore, membro del consiglio della sezione locale della Christian Coalition, Gingrich non fece una piega. Tutti i peccati, anche quelli commessi dai conservatori, erano causati dal relativismo morale che i democratici avevano imposto all’America sin dagli anni Sessanta. Mi aspettavo che, prima o poi, spiegasse come la decadenza morale dei democratici avesse corrotto le amministrazioni Nixon e Reagan provocando gli scandali del Watergate e dell’affare Iran-Contra. Sono sicuro che avrebbe trovato il modo. Quando era in forma, era difficile fermarlo” (2).

IL MONDO ALLA ROVESCIA

L’estratto appena riportato contiene un tópos, al quale ha accennato pure Ernst Robert Curtius nel suo Letteratura europea e Medio Evo latino: quello del “mondo alla rovescia”, “capovolto”, “uscito dalla carreggiata”, per cui “ormai ci si può aspettare di tutto”. Altri casi sono esposti da Clinton:

“Nel 2002 il Vietnam apparentemente era già entrato a tal segno nell’ombra della psiche americana, che in Georgia il repubblicano Saxby Chambliss, che aveva ottenuto un rinvio al tempo del Vietnam, riuscì a sconfiggere il senatore uscente Max Cleland, che aveva perso tre arti in Vietnam, mettendo in dubbio il suo patriottismo e il suo impegno per la sicurezza dell’America”

“Dal 1968 in poi i conservatori sono riusciti a far credere ai ceti medi americani che i candidati progressisti e le loro idee politiche sono estranee ai loro valori e minaccino la loro sicurezza. Joe Duffey, figlio di un minatore di carbone, fu trasformato in un debole elitario ultraliberal. George McGovern, un autentico eroe di guerra, inviato al Senato dai conservatori del South Dakota rurale, fu trasformato in un estremista di sinistra senza spina dorsale che non avrebbe difeso l’America ma avrebbe fatto pagare le tasse e gravato sconsideratamente sulla spesa pubblica” (3).

Analogamente, in un lavoro di Klaus Davi si legge: “Un vigliacco, un fifone (parliamo di George Bush, come lo definisce il New York Times in un editoriale del 5 settembre 2004), che usò le amicizie paterne per sfuggire al reclutamento in Vietnam, ha potuto capovolgere la situazione facendo diventare colui che è stato per davvero un eroe di guerra una femminuccia. Così John F. Kerry, che senza dubbio versò il suo sangue con quello di altri nelle vicinanze del Mekong, non nel Mississippi, è divenuto magicamente, in mezzo alla giostra elettorale, il disertore e il buono a nulla” (4).

Anche Bill Clinton si trovò al centro di una situazione assurda, che dimostra l’importanza del “far sapere”, al di là del “saper fare” e del “fare”. L’ex presidente degli Stati Uniti ha raccontato:

“Alla fine di aprile [1994] fu chiaro che avevamo perso la battaglia propagandistica sull’assistenza sanitaria […] Infatti, un sondaggio del Wall Street Journal e di Nbc News, pubblicato il 10 marzo in un articolo intitolato Molti non capiscono che è il piano di Clinton quello che apprezzano, dimostrava che le persone invitate a commentare il nostro programma sanitario erano in maggioranza contrarie. Ma quando veniva chiesto loro che cosa volessero da una riforma sanitaria, oltre il 60% degli intervistati sosteneva tutte le principali disposizioni che facevano effettivamente parte del nostro progetto. L’articolo diceva: ‘Di fronte alla descrizione del disegno di legge Clinton, non identificato come il programma del presidente e delle altre quattro principali proposte al Congresso, il programma di Clinton è la prima scelta di ciascuno degli interpellati’” (5).

In Italia, in occasione delle elezioni del 1996, a proposito di una contestazione contro il candidato del centro-sinistra alla presidenza del Consiglio, Rosi Bindi osservò: “È impensabile che un’assemblea di commercianti fischi il leader di uno schieramento il cui programma è imperniato sulla piccola e media impresa e sulla democrazia economica e appoggino invece il rappresentante di un polo che somma in modo contraddittorio i grandi monopoli pubblici e privati” (La Repubblica, 5 marzo 1996, p. 6).

Comportamenti simili sono evidentemente la conseguenza di posizioni ideologiche, dettate da pregiudizi.

Nel corso della medesima campagna elettorale, quando il suo avversario si appellò ai cattolici per ottenerne il voto, Romano Prodi sostenne implicitamente che una loro risposta positiva avrebbe comportato un capovolgimento della realtà:

“Mi sdegno del fatto che Berlusconi pensa di essere il destinatario del voto cattolico, quando ha fatto la sua fortuna, i suoi soldi, con una televisione che certamente non ha portato avanti i valori cattolici” (La Repubblica, 17 aprile 1996, p. 4)

“Certo mi sono meravigliato che sia stato Berlusconi a sollevare questo argomento della famiglia. Non lo dico tanto per i suoi problemi familiari, che non voglio giudicare, quanto per il fatto di essersi arricchito attraverso le sue televisioni con largo uso di violenza, sesso e la proposta di modelli di comportamento che non potrebbero essere più agli antipodi dei princìpi cristiani. E poi farsi alfiere del cristianesimo! Se si prende tra mano il discorso del Papa sulla televisione, come si fa a non vedere una critica rivolta soprattutto a come la televisione di Berlusconi ha allontanato l’Italia dal costume cristiano?” (Famiglia Cristiana, 24 aprile 1996, p. 26)

“C’è chi pensa che la politica si eserciti senza competenze, che si attui con la furbizia, che sia un mezzo per arricchirsi o conservare il proprio patrimonio, che al politico sia pure consentita la menzogna. Non così insegna la morale cristiana” (Corriere della Sera, 9 aprile 1996, p. 3)

“Non smette mai di dirsi cattolico, che modello propone agli italiani? Lo sfoggio dei soldi, del carrierismo, degli affari davanti a tutto” (Corriere della Sera, 11 aprile 1996, p. 4).

Ma tale stravolgimento veniva rifiutato dai cattolici più consapevoli, come affermò lo stesso Prodi: “La gente mi diceva che dovevo reagire, nelle parrocchie si lamentavano: ‘Il Cavaliere pretende di rappresentarci, invece tra noi e lui non c’è niente in comune’. Insomma, chiedevano di essere difesi e ho sentito l’obbligo morale di reagire” (Corriere della Sera, 19 aprile 1996, p. 5).

Può anche succedere che il colpevole accusi l’innocente. Come ha raccontato Marco Travaglio, “proseguendo nelle indagini su Telekom Serbia, la procura di Torino scoprirà un particolare davvero avvincente […] Un coup de théâtre degno della migliore commedia degli equivoci e degli inganni, secondo lo schema del mondo alla rovescia che ha sempre affascinato il teatro dell’assurdo. La notizia è questa: 2,4 miliardi di lire provenienti dalla mediazione del conte Gianni Vitali, ‘facilitatore’ dell’affare e confluiti non si sa bene come alla società Finbroker di San Marino, finirono nelle casse del Roma, il quotidiano napoletano edito dal deputato di An Italo Bocchino, membro della commissione Telekom Serbia. Il Bocchino indagava sui soldi incassati da Prodi e invece li aveva presi, indirettamente, lui. È, giornalisticamente parlando, l’uomo che morde il cane” (6).

In un romanzo storico, per la cui stesura il suo autore ha consultato diversi documenti, si legge: “‘Siamo quindi caduti così in basso?’ commentò amaramente Catone. ‘La persona onesta deve farsi da parte e lasciare che il furfante trionfi? Sarebbe questa la giustizia di Roma?’” (7).

L’ARGOMENTO DI DIREZIONE

La fallacia della brutta china è affine all’argomento di direzione, che, secondo Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “consiste, essenzialmente, nel mettere in guardia contro l’uso del procedimento a tappe: se cedete questa volta dovrete cedere un po’ di più la volta prossima, e Dio sa quando vi fermerete” (8).

In un romanzo si riporta un dibattito fra alcuni candidati democratici alle primarie per la presidenza degli Stati Uniti d’America. Uno di loro s’ispira a una simile forma di argomentazione:

“‘La realtà è che non possiamo permetterci il lusso di essere tanto solidali quanto vorremmo. La realtà è che abbiamo speso fin troppo per troppo tempo. La realtà è che, se vogliamo lasciare un mondo migliore ai nostri nipoti, noi, popolo americano, dovremo affrontare qualche esperienza dolorosa. Bisognerà fare qualche sacrificio’”.

“‘Larry, tu scherzi, spero…’, disse una voce nota”.

“‘Come dice, governatore Stanton?’”.

“‘Dico, […] dovunque si vada, in questo stato si incontra gente che di recente ha avuto esperienze personali dolorose. Non so se lassù a Dartmouth t’è giunta voce, ma qui nel New Hampshire c’è la recessione. La gente soffre. Perde il posto di lavoro, perde la casa. Sarebbe questa la gente che deve imparare a sacrificarsi? Secondo te, a che cos’altro dovrebbe rinunciare?’” (9).

LA DIREZIONE SBAGLIATA E IL MOMENTO DI CAMBIARE

Nel dibattito politico è possibile ricorrere a un siffatto tipo di ragionamento per sostenere la tesi che il Paese sta percorrendo una strada erronea (Wrong-track). Ne deriva l’effetto time-for-change. Ai due concetti fece riferimento Romano Prodi, intervenendo al 3° Congresso Nazionale dei Democratici di Sinistra, il 4 febbraio 2005:

“Negli ultimi anni siamo andati nella direzione sbagliata. Come se l’interesse nazionale e l’interesse europeo fossero due cose distinte. Come se la scelta europea e l’alleanza e l’amicizia con l’America fossero tra loro incompatibili. Non è così. L’ha detto benissimo ieri, Piero Fassino. Il nostro interesse nazionale sta nell’Europa. Un’Europa unita, forte e per questo capace di decidere. È ora di tornare a lavorare per l’Europa e per l’Italia in Europa”. E ancora: “L’Italia era il paese più bello del mondo. Temo che questo non sia più vero. Nel dopoguerra abbiamo distrutto gran parte delle nostre coste. Abbiamo costruito periferie desolate, abbiamo inquinato l’acqua e l’aria. Forse siamo l’unica generazione che ha assistito al deterioramento del nostro paese. Dobbiamo cambiare direzione. È ora di tornare a lavorare sulle nostre città. È ora di difendere e ricostruire la bellezza del nostro paesaggio. È ora di rispettare gli impegni presi con la firma del Protocollo di Kyoto” (in sito web).

Il richiamo alle nozioni di “direzione sbagliata” e di “momento di cambiare” si trova talvolta nell’autobiografia di Bill Clinton:

“Quando [Bush] criticò l’economia dell’Arkansas replicai che l’Arkansas era sempre stato povero, ma nell’ultimo anno aveva occupato il primo posto per la creazione di nuovi posti di lavoro e il quarto per l’incremento percentuale dei posti di lavoro nel settore industriale, del reddito pro capite e per la diminuzione della povertà, vantando inoltre il secondo posto a livello nazionale per il più basso carico tributario statale e locale: ‘La differenza tra l’Arkansas e gli Stati Uniti è che noi stiamo andando nella direzione giusta, mentre questo paese sta andando nella direzione sbagliata’ […] E di Bush dissi: ‘Gli sono grato per il servizio che ha reso al nostro paese, apprezzo i suoi sforzi e gli auguro ogni bene. Credo soltanto che sia giunto il momento di cambiare… So che possiamo fare di meglio’” (10).

NOTE

(1) FLAVIA TRUPIA, “Processo all’opinione pubblica”, in Huffington Post, 1 marzo 2018.

(2) BILL CLINTON, My Life, Mondadori, 2004, p. 685.

(3) BILL CLINTON, op. cit., pp. 170 e 212).

(4) KLAUS DAVI, I conta balle. Le menzogne per vincere in politica, Marsilio, 2005, pp. 163-164.

(5) BILL CLINTON, op. cit., pp. 639-640.

(6) MARCO TRAVAGLIO, La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni, il Saggiatore, 2006, p. 45.

(7) ROBERT HARRIS, Imperium, Mondadori, 2006, p. 90

(8) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 306.

(9) ANONIMO, Colori primari, Garzanti, 1996, p. 201.

(10) BILL CLINTON, op. cit., pp. 466 e 467.