di Giorgio Matza
Nelle dichiarazioni alla stampa, riguardo alla prossima consultazione popolare sulla riforma costituzionale, il presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico Matteo Renzi ha utilizzato un efficace argomento (nel senso di prova portata a favore di una tesi, ragionamento fatto a sostegno di un’opinione): quello dello spreco, nella sua variante di occasione da non perdere.
Per esempio, in un faccia a faccia con il giornalista Massimo Gramellini del quotidiano La Stampa, a proposito del voto al referendum, ha detto: <È un’occasione che non ricapita. Di mandarmi a casa ci saranno occasioni plurime, ma se si vota semplicemente contro il governo si butta via l’occasione per i prossimi 30 anni di cambiare le cose in Italia. La fregatura è che una vittoria del no vuol dire buttare via l’ultima occasione in trent’anni per cambiare le cose>. E più avanti ha aggiunto: <Se vince il no per me è difficilissimo cambiare dopo. Se vince il sì, ci sarà lo spazio per migliorare e intervenire su altre riforme> (1).
Tale forma di argomentazione si trova nel seguente estratto da un discorso, tenuto da George W. Bush per le elezioni presidenziali del 2000 negli Stati Uniti d’America: <Questo è un momento notevole nella vita della nostra nazione. La promessa della prosperità non è mai stata così viva. Ma i tempi di ricchezza, come i tempi di crisi, sono un test del carattere americano. La prosperità può essere uno strumento nelle nostre mani, se usata per costruire e migliorare la nostra nazione. Oppure può essere una droga nel nostro sistema, se annebbia il nostro senso di urgenza, di empatia, di dovere. Le nostre opportunità sono troppo grandi, le nostre vite troppo brevi, per sprecare questo momento. Quindi stasera promettiamo alla nostra nazione: coglieremo l’attimo della promessa americana. Useremo questi tempi favorevoli per grandi obiettivi> (2).
Alla stessa variante di occasione da non perdere si rifanno, seppure implicitamente, alcuni slogan, utilizzati dal Partito conservatore britannico nel corso di diverse campagne elettorali: più precisamente, <La vita è meglio coi conservatori> nel 1959, <L’Inghilterra sta meglio coi conservatori> nel 1978 e <La Gran Bretagna è nuovamente grande. Non lasciate che i laburisti la mandino in rovina> nel 1987 (3).
Chiaramente ispirata al modello argomentativo di cui si sta trattando e caratterizzata da una certa amarezza, è una riflessione esposta da Pietro Nenni nella sua relazione al 35° congresso del Partito socialista italiano (PSI), il 25 ottobre 1963: <Se dovessi dire in una frase che cosa mi ha più colpito nella mia lunga vita di combattente e di militante direi che è il dramma delle possibilità sciupate, delle cose che si potevano fare […] e non si sono fatte per una infinità di ragioni ognuna delle quali era giusta in sé e per sé, ma che finirono sovente per diventare un alibi onde scartare le cose possibili e ad esse sostituire la visione inebriante di cose più belle e più radicali, ma impossibili> (4).
Un principio affine (con il rapporto buono-perfetto al posto di quello possibile-impossibile) è stato espresso da Bill Clinton nella sua autobiografia: <In aprile [1990] l’Afl-Cio mi negò per la prima volta il suo sostegno. Al presidente, Bill Becker, non ero mai piaciuto granché […] Inoltre, era furibondo perché avevo sostenuto una garanzia di prestito di 300.000 dollari a un’azienda coinvolta in una vertenza sindacale. Parlai alla convention del sindacato […] Difesi la garanzia di prestito perché salvava 410 posti di lavoro […] Nel giro di due settimane diciotto sindacati locali si opposero a Becker e mi sostennero comunque. Non caddero nella classica trappola liberal: sacrificare quanto c’è di buono nella ricerca della perfezione. Se le persone che votarono per Ralph Nader nel 2000 non avessero commesso questo errore, Al Gore sarebbe stato eletto presidente> (5).
In generale l’argomento dello spreco consiste nel sostenere la necessità di continuare nella stessa direzione fino alla riuscita finale, dopo aver cominciato un’azione e accettato sacrifici che sarebbero del tutto vani in caso di rinuncia all’impresa.
È possibile collegare a esso la preferenza accordata a quello che è “decisivo”. Così si valorizza l’azione che ha piena portata e non comporta una perdita. Per esempio, si tende a dare a un candidato il proprio voto, perché si ritiene determinante per la sua vittoria: proprio su questo punta lo slogan francese “votez utile”, cioè “votate in modo utile” (6).
Roberto Grandi, riferendosi alle elezioni primarie, ha scritto: <Il candidato deve dimostrare di detenere in misura maggiore dei concorrenti interni al proprio partito quella qualità che è stata definita electability, ovvero la probabilità di vincere l’elezione alla presidenza. Non ci si schiera dunque necessariamente per il candidato più vicino alle proprie posizioni, ma per quello che si ritiene abbia maggiori possibilità di far convergere su di sé i voti degli indecisi o di quegli elettori fluttuanti che possono “fare la differenza”> (7).
Durante la campagna elettorale per la nomination democratica per le presidenziali americane del 2008, per la quale partecipava sua moglie, Bill Clinton ha avuto numerosi incontri con gli elettori e ha risposto alle loro domande. In un quotidiano italiano si può leggere: <Perché dovremmo votare per Hillary?> (chiede una signora con i capelli grigi raccolti sulla nuca). <Perché è quella che ha più possibilità di battere i repubblicani, è la più eleggibile […] La maggior parte dei repubblicani che conosco pensa che avranno più difficoltà a battere lei. A loro piace attaccare la gente: praticano una forma di chirurgia plastica al contrario e preferiscono la carne fresca a quella di una persona che ha le cicatrici e che non riesci più a far sanguinare>. <Perché – insiste la signora – dovremmo preferirla ad Obama?> […] <Potresti votare per Hillary perché è stata molto esaminata e crudelmente attaccata per 15 anni, ma ancora riesce a battere tutti i candidati repubblicani nei sondaggi> (8).
Come hanno rilevato Anthony R. Pratkanis e Elliot Aronson, <la gente odia le perdite e cerca di evitarle. È più doloroso perdere venti dollari di quanto sia gradevole guadagnarli>. Perciò <definire la questione come “perdita di qualcosa” risulta più convincente che porla in termini di benefici> (9).
L’esigenza di esprimere la propria preferenza utilmente in una elezione, senza fare ragionamenti che potrebbero essere rischiosi, emerge nell’autobiografia di Bill Clinton, là dove si racconta della sua mancata riconferma a governatore dell’Arkansas nel 1980: <A quel tempo, più di un centinaio di persone erano venute a dirmi di aver votato contro di me per mandarmi un messaggio, ma non lo avrebbero fatto se avessero saputo che avrei perso> (10).
Oltre a quella di occasione da non perdere, esistono altre varianti dell’argomento dello spreco, come il talento da sfruttare. A essa è ricorso Silvio Berlusconi prima delle elezioni politiche del 21 aprile 1996, come attestato dai seguenti passi:
<Sono sempre più convinto che uno che lavora serva molto più di tanti che chiacchierano […] Questo paese ha bisogno di cambiare in tutti i settori, perché ha ereditato una montagna di debiti. Si può rimediare solo lavorando. Io sono a disposizione: se gli italiani ci crederanno, eccomi qui; altrimenti, peggio per loro>
<Un Berlusconi primo imprenditore d’Italia è sprecato per l’opposizione> (11).
Dopo la sua sconfitta, ha commentato: <Vado a rappresentare i miei otto milioni di elettori all’opposizione, anche se avrei potuto certamente far meglio al governo […] Sarò immodesto, ma io pensavo di essere una risorsa per il Paese… Mi sono detto: hanno un Berlusconi per le mani, con tanta voglia di ammodernare l’Italia, ne approfitteranno. Invece… Ci sono momenti che magari non tornano più. Non so se questa voglia ce l’avrò in eterno> (12).
In un certo qual modo le due varianti di cui si è appena detto si possono trovare congiuntamente in un documento elaborato da Len Garment, un consulente del candidato repubblicano Richard Nixon, per le elezioni per la presidenza statunitense del 1968: <Esiste una fantastica macchina economica. Abbondanti risorse nazionali. Abbiamo però bisogno di una direzione politica che utilizzi tutto questo, che metta in moto il meccanismo creativo della vita americana per far progredire la nazione. Tra tanta gente di talento (governatori, senatori, membri del Congresso, uomini d’affari, intellettuali) i repubblicani possono trovare uomini, idee e programmi per formare il nuovo governo e amministrare come si deve> (13).
Successivamente Richard Nixon ricorse ad un’altra variante: quella dello sforzo quasi riuscito. Può essere interessante leggere la seguente ricostruzione di Klaus Davi: <Nel ’68 Nixon riuscì a conquistare la presidenza illudendo il popolo americano sulla sua capacità di porre fine alla guerra in Vietnam. Tre anni dopo le probabilità di una sua rielezione erano veramente scarse: la guerra proseguiva, l’economia era debole e solo il 48% degli americani approvava l’operato dell’amministrazione […] Eppure per i repubblicani il 1972 fu ciò che il 1964 era stato per i democratici: uno spettacolare trionfo. Come fu possibile per Nixon rovesciare un situazione che sembrava senza via d’uscita? Il suo segretario di Stato, Henry Kissinger, dichiarò che la pace era a portata di mano e che per conseguirla era necessario mantenere la stessa leadership. Nixon fu presentato agli elettori come esperto in politica estera e, ancora una volta, come candidato portatore di pace […] Gli strateghi del presidente […] esaltarono l’esigenza di una sua riconferma in modo che potesse terminare il lavoro che aveva cominciato. Lo slogan “Il presidente Nixon, ora più che mai” sintetizzava in modo molto efficace l’intento di riferirsi a un work in progress e di chiedere all’elettorato di aiutare il presidente a ultimare il suo compito>. E così <Nixon conquistò 49 stati su 50, lasciando ai democratici solo il Massachusetts> (14).
Quella che si cita è la conclusione di un messaggio rivolto al popolo dal presidente americano Ronald Reagan, il 27 luglio 1981, a sostegno della necessità di una riforma fiscale: <Ora io vi chiedo di mettere da parte ogni sentimento di frustrazione o impotenza riguardo alle nostre istituzioni (…) e di unirvi a me in questo piano drammatico, ma responsabile per ridurre l’onere enorme della tassazione federale (…) Durante gli ultimi mesi, molti di voi hanno domandato cosa potevano fare per contribuire a rendere di nuovo forte l’America. Io vi esorto di nuovo a contattare i vostri senatori e congressmen. Ditegli del vostro supporto a questo progetto bipartisan. Dite loro che credete che questa sia un’opportunità impareggiabile per aiutare l’America a tornare alla prosperità e rendere nuovamente il governo il servitore del popolo (…) Siete stati voi a fare la differenza sinora. Sarete voi a farla di nuovo. Non lasciate che ci fermiamo ora> (15).
Nella fattispecie è possibile riconoscere la presenza sia dell’occasione da non perdere (“un’opportunità impareggiabile”), sia dello sforzo quasi riuscito (“non lasciate che ci fermiamo ora”).
Un’altra forma del ragionamento di cui stiamo parlando, si basa su un insieme da completare, come nei due esempi seguenti, tratti rispettivamente dalla produzione discorsiva di Bettino Craxi e da un annuncio pubblicitario di carattere sociale:
<A me niente dà più fastidio delle opere lasciate a metà o a tre quarti; dei lavori che ritardano, o si arrestano, quando sono alle soglie del loro compimento e della loro utilizzazione; quando, insomma, si rinuncia alla possibilità di cominciare ad avere rientri, la redditività – economica e sociale che sia – delle spese fatte e del lavoro svolto> (16).
<Con voi la ricerca sul cancro ha aperto molte porte. Non fermiamoci qui>.
All’argomento dello spreco si oppone quello del superfluo, consistente nella svalutazione di un’azione, in quanto considerata vana e dunque nell’incitamento ad astenersene a causa del suo effetto nullo (17).
NOTE
(1) <Renzi a Torino: “Il referendum è l’ultima occasione per cambiare l’Italia”>, nel sito web lastampa.it, 6 ottobre 2016.
(2) Riportato in CRISTIAN VACCARI, Il discorso politico nelle elezioni presidenziali Usa 2000, in sito web.
(3) Riportato in PHILIP KLEINMAN, Saatchi & Saatchi. La storia della più grande agenzia pubblicitaria del mondo, Sperling & Kupfer, 1989, pp. 50 e 56.
(4) Riportato in ELENA SPAGNOL, Citazioni, Garzanti, 2006, p. 747.
(5) BILL CLINTON, My Life, Mondadori, 2004, pp. 380-381.
(6) CHAIM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 1989, pp. 294-296.
(7) ROBERTO GRANDI, <Strategie a confronto>, in MARINO LIVOLSI, UGO VOLLI (a cura di), Il televoto. La campagna elettorale in televisione, Franco Angeli, 1997, pp. 84-85.
(8) La Repubblica, 8 gennaio 2008, p. 11.
(9) ANTHONY R. PRATKANIS, ELLIOT ARONSON, Psicologia delle comunicazioni di massa. Usi e abusi della persuasione, Il Mulino, 1996, pp. 76-77 (Edizione originale: Age of Propaganda. The Everyday Use and Abuse of Persuasion, 1992).
(10) BILL CLINTON, op. cit., p. 305.
(11) Rispettivamente in La Repubblica, 25 febbraio 1996, p. 2 e Corriere della Sera, 17 aprile 1996, p. 2. Il primo estratto contiene pure la figura retorica dell’antitesi tra i fatti (“uno che lavora”) e le parole (“tanti che chiacchierano”).
(12) Corriere della Sera, 23 aprile 1996, p. 7. In questo passo, per mezzo di verbi dichiarativi (“pensavo”, “mi sono detto”), l’emittente del messaggio riporta il proprio monologo interiore allo scopo di evidenziare una deliberazione intima come garanzia di sincerità per il ricevente.
(13) LEN GARMENT, <Memorandum>, in JOE MC GINNIS, Come si vende un presidente, Mondadori, 1970, pp. 210-211.
(14) KLAUS DAVI, I conta balle. Le menzogne per vincere in politica, Marsilio, 2005, pp. 83, 84, 85.
(15) Riportato in FRANCA RONCAROLO, Controllare i media. Il presidente americano e gli apparati nelle campagne di comunicazione permanente, Franco Angeli, 1994, pp. 122-123.
(16) Riportato in PAOLA DESIDERI, Il potere della parola. Il linguaggio politico di Bettino Craxi, Marsilio, 1987.
(17) CHAIM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 296-297.