Pascoli, Giovanni, La mia sera, 1903

Ipallage“La mia sera” di Giovanni Pascoli è un’opera formata da cinque strofe, ciascuna comprendente sette versi novenari e un senario. Il 19°, al pari del 34°, è un verso ipèrmetro. La rima è alternata secondo lo schema ABABCDCD. Quella tra “tumulto” (v. 13) e “singulto” (v. 15) offre l’opportunità di ricordare il fenomeno dell’isomorfismo. I due vocaboli si somigliano per il suono e si equivalgono morfologicamente (genere maschile e numero singolare), sintatticamente (sono due sostantivi) e semanticamente (appartengono al campo dell’udito; tuttavia c’è il contrasto intensità / tenuità). L’unione di termini collegati fonologicamente può addirittura produrre un senso logico, come tra “serena” (v. 26) e “cena” (v. 28).

La paronomasia, ossia l’analoga sonorità, è evidente nel verso 11 (“allegre ranelle”: più precisamente è un paragramma), nel verso 19 (“fulmini fragili”), nel verso 25 (“rondini intorno”) e nel verso 28 (“prolunga” e “garrula”). Si ripetono gli stessi fonemi all’inizio di “tremule” (v. 5) e di “trascorre” (v. 6) e alla fine di “infinita”, “tempesta” (v.17) e “finita” (v. 18). Abbiamo rispettivamente l’allitterazione e l’omoteleuto, che sono funzionali all’armonia imitativa, con cui si riproducono indirettamente dei rumori: nello specifico, delle foglie mosse lievemente dal vento (/tr-tr/) e del temporale (/ta-ta-ta/). Pare di sentire i tocchi di una campana con l’iterazione per quattro volte di “dormi” (vv. 33, 34, 35). Prima ancora, però, l’“avemaria” viene imitata direttamente con l’onomatopea: “Don… Don” (v. 33). Ne troviamo un’altra, “gre gre”, nel verso 4, relativa al gracidare delle rane, che riecheggia in “allegre” (v. 11). Un’ulteriore particolarità fonetica è la ripetizione di un gruppo di fonemi in una catena sintattica, alla fine di una parola e all’inizio della successiva: “le stelle, / le tacite” (vv. 2-3), “ranelle. / Le tremule” (vv. 4-5), “nel giorno non l’ebbero” (v. 30), “Dormi! / mi cantano” (vv. 33-34).

Ogni figura fonica contribuisce in generale alla musicalità della poesia e a distinguerla dunque dalla prosa. Un effetto musicale si ottiene parimenti con l’enjambement, mediante una pausa e un’immediata ripresa: “Nei campi / c’è un breve gre gre di ranelle” (vv. 3-4), “La nube del giorno più nera / fu quella che vedo più rosa” (vv. 22-23), “La fame del povero giorno / prolunga la garrula cena” (vv. 27-28). In certi passaggi questa separazione coincide con l’anastrofe: “Le tremule foglie dei pioppi / trascorre una gioia leggera” (vv. 5-6), “Là, presso le allegre ranelle / singhiozza monotono un rivo” (vv. 11-12), “È, quella infinita tempesta, / finita in un rivo canoro” (vv. 17-18), “Dei fulmini fragili restano / cirri di porpora e d’oro” (vv. 19-20), “La parte, sì piccola, i nidi / nel giorno non l’ebbero intera” (vv. 29-30), “Bisbigliano, Dormi! / là, voci di tenebra azzurra” (vv. 35-36). L’inversione dell’ordine normale degli elementi linguistici (per esempio, nel primo caso: complemento oggetto + complemento di specificazione + predicato verbale + soggetto) eventualmente serve alla soluzione di problemi concernenti la misura dei versi e ai loro accenti e alla rima. Più precisamente, riguardo al metro, rendendo possibile la sinalefe, permette di scendere da dieci sillabe grammaticali a nove sillabe metriche: “Trascorre una gioia leggera” (v. 6), “Singhiozza monotono un rivo” (v. 12, ma la diminuzione si deve anche all’enallage, con cui si usa l’aggettivo “monotono” invece dell’avverbio “monotonamente”), “È, quella infinita tempesta, / finita in un rivo canoro” (vv. 17-18), “La parte, sì piccola, i nidi / nel giorno non l’ebbero intera” (vv. 29-30). A una riduzione sillabica è adatta ugualmente la sineresi*: “Mia limpida sera” (v. 32: da sette sillabe grammaticali a sei sillabe metriche, essendo un senario), “che fanno ch’io torni com’era” (v. 38. “Era”, rimante con “sera” nel verso 40, è un metaplasmo per sostituzione con il fonema /a/ al posto del fonema /o/).

Lo spunto preso dal poeta per la stesura del testo emerge nelle prime quattro strofe (di ciascuna riportiamo almeno i due versi iniziali: “Il giorno fu pieno di lampi; / ma ora verranno le stelle”; “Si devono aprire le stelle / nel cielo sì tenero e vivo”; “È, quella infinita tempesta, / finita in un rivo canoro”; “Che voli di rondini intorno! / che gridi nell’aria serena!”). L’enunciazione della medesima idea in forme elocutorie diverse è la peculiarità dell’indugio.

Nei versi 7-8 il concetto si esprime con un’antitesi (“Nel giorno, che lampi! che scoppi! / Che pace, la sera!”). Il contrasto (pericolo / sicurezza) è accentuato dal chiasmo, la disposizione incrociata di vocaboli fra loro collegati semanticamente o, nella fattispecie, sintatticamente: determinazione temporale + sostantivo / sostantivo + determinazione temporale. Alla collocazione speculare A-B/B-A si oppone la simmetria, che è propria del parallelismo (“Che voli di rondini intorno!” / che gridi nell’aria serena!”, “e che voli, che gridi” nei versi 25-26 e 31) e, con un andamento più articolato, dell’isocòlo: “Di tutto quel cupo tumulto, / di tutta quell’aspra bufera” (vv.13-14) e “Mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi!” (vv. 33-35). Negli ultimi due estratti osserviamo pure la presenza dell’anafora (“Di tutto quel”, “di tutta quella”), dell’epifora (“Dormi”) e dell’anticlimax (con la successione di “dicono”, “cantano”, “sussurrano”, “bisbigliano” si suggerisce una progressiva attenuazione del suono delle campane).

Il chiasmo, il parallelismo e l’isocòlo sono tipi di iconismo sintattico.

L’unione (e non il semplice accostamento) di parole o frasi di significato opposto, che si escludono a vicenda, contraddistingue l’ossimoro: “Dei fulmini fragili restano / cirri di porpora e d’oro” (vv. 19-20). Congiuntamente abbiamo un’ipallage, giacché la delicatezza riguarda non i fulmini, bensì i cirri.

Nella descrizione del fenomeno naturale, che costituisce il motivo occasionale, si sceglie il criterio sensoriale, si registrano i dati percepiti attraverso i sensi: più precisamente le sensazioni visive (con “lampi” nei versi 1 e 7, “fulmini” nel verso 19, “nera” nel verso 22, “rosa” nel verso 23, “voli” [di rondini] nei versi 25 e 31) e uditive (con “scoppi” nel verso 7, “gridi” nei versi 26 e 31, “dicono” nel verso 33, “cantano” e “sussurrano” nel verso 34, “bisbigliano” nel verso 35, “canti” nel verso 37). In tale maniera il discorso acquista una funzione mimetica, di imitazione dell’esistente, giacché si crea un “effetto di realtà”. Ne deriva l’impressione del lettore di essere veramente davanti all’oggetto della rappresentazione. Avviene parimenti per mezzo della sinestesia, di cui si contano vari casi (sono specialmente efficaci il primo e l’ultimo): “tacite stelle” nel verso 3 (udito + vista), “tenero e vivo [luminoso]” nel verso 10 (tatto + vista), “cupo [oscuro] tumulto” nel verso 13 (vista + udito), “aspra bufera” nel verso 14 (gusto + udito), “dolce singulto” nel verso 15 (gusto + udito), “voci di tenebra azzurra” nel verso 36 (udito + vista). Si trovano anche elementi del lessico indicanti oggetti concreti, i quali si colgono grazie all’esperienza sensibile. Ecco alcune occorrenze: “stelle” (vv. 2, 3 e 9), “foglie” (v. 5), “cielo” (v. 10), “rivo” (vv. 12 e 18), “nidi” (v. 29), “culla” (v. 37).

L’occasione della composizione è strettamente collegata al tema fondamentale, esposto laconicamente, mediante la reticenza, nei versi 27-31: “La fame del povero giorno / prolunga la garrula cena. / La parte, sì piccola, i nidi / nel giorno non l’ebbero intera. / Né io…” [sottinteso: ho avuto, da giovane, un po’ di felicità]. Giovanni Pascoli, soffermandosi sulla condizione di disagio dei rondinini a causa del maltempo e sul suo superamento, pensa alla sua vita, caratterizzata dal dolore nella giovinezza e dalla pace nella maturità e, in qualche modo, in relazione con il passaggio dal temporale del giorno al bel tempo della sera. C’è evidentemente l’analogia, che possiamo prendere per motivo centrale, il “procedimento retorico […] che funge da principio organizzatore del testo” (Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, p. 197). Questa tecnica argomentativa consiste nella somiglianza di rapporto fra vari elementi: obiettivamente, la giovinezza sta alla maturità come il giorno sta alla sera, il dolore sta alla pace come il temporale sta al bel tempo e di conseguenza il dolore della giovinezza sta alla pace della maturità come il temporale del giorno sta al bel tempo della sera. La riflessione del poeta implica una tesi: la pace sopraggiunge sempre dopo il dolore come il bel tempo alla fine del temporale.

“Giorno”, “sera” (parola-chiave, riportata nel titolo e alla fine di ogni strofa, in una posizione di particolare rilievo), “tempesta” e “aria serena”, al di là dell’accezione letterale di periodi della giornata e eventi atmosferici, ne hanno una metaforica, in quanto simboleggiano la giovinezza, la maturità, il dolore e la pace.

La metafora s’individua pure nei versi 5-6 (“Le tremule foglie dei pioppi / trascorre una gioia leggera”: con “gioia” al posto di “brezza”), nel verso 20 (“cirri di porpora e d’oro”: nubi rosse e gialle). Nei versi 36 e 37 è associata alla similitudine (confronto tra immagini diverse) per esprimere l’idea che il suono delle campane, proveniente dal cielo azzurro avvolto nell’oscurità, pare una ninna nanna: “Là, voci di tenebra azzurra. / Mi sembrano canti di culla”. L’ultimo vocabolo è impiegato in sostituzione di “infanzia”. Costituisce quindi una metonimia del tipo il concreto per l’astratto. Nel verso 29, invece, abbiamo il conte­nente per il contenuto: “nidi” per “rondinini”.

Il poeta si affaccia, utilizzando la prima persona, in tre strofe: la terza (“La nube del giorno più nera / fu quella che vedo più rosa / nell’ultima sera”, vv. 22-24), la quarta (“La fame del povero giorno / prolunga la garrula cena. / La parte, sì piccola, i nidi / nel giorno non l’ebbero intera. / Né io…”, vv.  27-31) e la quinta (“Mi sembrano canti di culla, / che fanno ch’io torni com’era… / sentivo mia madre… poi nulla…”, vv. 37-39). Inoltre la sua presenza si delinea attraverso l’apostrofe: “O stanco dolore, riposa!” (v. 21), “Mia limpida sera!” (v. 32). In entrambi i casi è associata alla personificazione, in quanto ci si rivolge non a una persona, ma a una cosa, che dunque viene personificata.

Ecco il testo completo de “La mia sera”

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.

Bibliografia

Gianfranca Lavezzi, Breve dizionario di retorica e stilistica, Carocci, 2004.

Angelo Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Oscar Studi Mondadori, 1978.

Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, 1988.

Federico Roncoroni, Testo e contesto, Arnoldo Mondadori Editore, 1985.

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