Ad misericordiam

L’argomento ad misericordiam è una fallacia che consiste nel tentativo di indurre alla condivisione di un’asserzione, cercando di provocare commiserazione. Franca D’Agostini ha proposto un’occorrenza paradigmatica: “Ho tre figli da mantenere, non può licenziarmi!” (Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, 2010, p. 122)

Il dirigente del Partito comunista italiano Lucio Libertini, nella Tribuna Politica Flash del 22 ottobre 1980, alla fine di una vertenza sindacale alla Fiat, puntò evidentemente a produrre compassione nel pubblico con una piccola storia: “In una fredda serata dello sciopero, dinanzi alla porta 16 di Mirafiori, […] una giovane operaia mi ha detto: ‘Perché tanti vogliono offenderci e sporcarci, non si può con i nostri soldi comprare un solo minuto alla televisione per dire che noi, operai, ci sacrifichiamo per la nostra famiglia, il lavoro e la libertà di tutti?’”. Il compatimento raggiungeva il culmine specialmente grazie alla conclusione, nella quale il parlante si rivolgeva direttamente e inaspettatamente alla lavoratrice: “Vorrei, cara compagna che forse mi ascolti, dirlo qui con la tua esile voce di immigrata meridionale” (In Paolo Mancini, “Strategie del discorso politico”, in Problemi dell’informazione, n° 2, 1981, pp. 213-214).

Secondo Marco Antonio (143 – 87 a.C.), “si suscita la pietà, se otteniamo che l’ascoltatore veda nelle tristi vicende che gli esponiamo qualche cosa di simile a quello che egli ha sofferto o teme di soffrire, in modo che, guardando ai casi di un altro, sia portato a pensare a se stesso” (In M. Tullio Cicernone, Dell’oratore, libro II, in Opere retoriche, a cura di G. Norcio, Utet, 1976, p. 357).

Silvio Berlusconi, da capo del Governo, così rispose a una domanda sul privato, durante un’intervista radiofonica: “In verità resta un tempo ab­bastanza ridotto, il sabato e la domenica; e naturalmente non tutti i sabati e non tutte le domeniche. Per illustrare la situazione le cito il finale di un tema di mia figlia Barbara: ‘Quest’anno è stato un anno di grandi cambiamenti della mia famiglia: mia sorella Eleonora ha cambiato pettinatura, mio fratello Luigi ha cambiato i denti, mio pa­dre è diventato Presidente del Consiglio ed io sono diventata una po­vera orfana’” (“Governo Berlusconi. Sette mesi di attività”, in Vita italiana, n° 8-12, agosto-dicembre 1994).

Sulla medesima falsariga si mosse Massimo D’Alema, parimenti amareggiato, perché spesso era costretto a trascurare i suoi bambini: “Sono un papà che si ferma agli autogrill a comprare giocattoli per farsi perdonare” (Sette, sup­plemento del Corriere della Sera, 28 dicembre 1995, p. 14).

Gli ultimi tre estratti attestano che è possibile ricorrere all’argomento ad misericordiam indipendentemente dalla sua funzione di avvalorare una proposizione specifica. Il già menzionato oratore e politico romano consigliava: “Perché una posizione sicura e brillante non può non suscitare l’invidia, bisogna sforzarsi perché sia abbassato il concetto di fortuna, mostrando che questa fortuna, che tiene un posto tanto alto nell’opinione degli uomini, è congiunta a travagli e miserie” (In M. Tullio Cicernone, op. cit., p. 357).

Alexandria Ocasio-Cortez è la più giovane candidata mai eletta prima alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. È quindi intuibile (anche se ingiustificabile) l’astio che qualcuno prova verso di lei. Nella sua produzione discorsiva sembra attenersi al suggerimento di Marco Antonio. Ricorda, infatti, di aver dovuto interrompere gli studi alla morte del padre e di essere figlia di una collaboratrice domestica o racconta: “Non sono nata in una famiglia ricca o potente. Madre di Porto Rico, papà del South Bronx. Sono nata in un luogo in cui il tuo codice postale determina il tuo destino” (YouTube – The Courage to Change | Alexandria Ocasio-Cortez); “Ho conosciuto lavori più umili. Ho lavorato come cameriera” e “venivo molestata nei ristoranti” (YouTube: “Alexandria Ocasio-Cortez – Discorso contro la cultura sessista”).

Talvolta si mira a originare una partecipazione emotiva, nella forma della tenerezza, riferendosi a condizioni di disagio, che coinvolgono i più piccoli. Occorrenze s’individuano nell’autobiografia di Bill Clinton e le tesi sostenute si configurano attraverso la narrazione:

“La scuola elementare di Chelsea era frequentata per circa il 60% da neri e più della metà dei ragazzi provenivano da famiglie a basso reddito. Ricordo che un compagno di classe, invitato al suo compleanno, stava per non venire perché non aveva i soldi per comprarle un regalo. Ero deciso a dare a quel ragazzino opportunità migliori di quelle avute dai suoi genitori”.

I repubblicani proponevano addirittura di tagliare i servizi e gli aiuti necessari ai disabili […] Una sera ricevetti una telefonata da Tom Campbell, mio compagno di stanza per quattro anni a Georgetown. Tom era un pilota di linea che conduceva una vita confortevole ma non era affatto ricco. Con una voce incrinata, mi confessò di essere preoccupato per le proposte dei tagli al bilancio inerenti i servizi per i disabili. Sua figlia Clara aveva una paralisi cerebrale, come la sua migliore amica, cresciuta da una madre nubile che lavorava a salario minimo, con un’ora di autobus all’andata e una al ritorno dal posto di lavoro. Tom […] mi chiese: ‘Fammi capire bene: a me daranno un taglio alle tasse e alla mamma dell’amica di Clara taglieranno gli aiuti per pagare la sedia a rotelle della bambina e le quattro o cinque paia di costose scarpe speciali di cui ha bisogno ogni anno e l’abbonamento gratuito per andare e tornare dal suo posto di lavoro a salario minimo?’. ‘L’hai detto’ risposi. E lui allora: ‘Bill, è immorale. Devi impedirlo’” (My Life, Mondadori, 2004, pp. 356 e 715).

L’impiego del sentimento della compassione, a sostegno del ragionamento, emerge pure in due libri di Barack Obama (nel secondo brano, mediante una domanda retorica, ci s’interroga, ma per affermare):

“Una bambina sui sette-otto anni, seguita dai genitori, si avvicinò e mi chiese un autografo: a scuola stava studiando il governo, mi spiegò e l’avrebbe mostrato alla classe. Le domandai come si chiamasse. Mi rispose che il suo nome era Cristina e frequentava la terza; dissi ai suoi genitori che dovevano essere orgogliosi di lei e mentre osservavo la bimba tradurre in spagnolo le mie parole, mi resi conto che l’America non ha nulla da temere da questi nuovi venuti […] Il pericolo si presenterà se non riusciremo a riconoscere l’umanità di Cristina e della sua famiglia, se li priveremo dei diritti e delle opportunità che diamo per scontati, tollerando l’ipocrisia di una classe servile in mezzo a noi; o, più in generale, se resteremo con le mani in mano mentre l’America continua a diventare sempre più ineguale, un’ineguaglianza che segue distinzioni di razza e quindi alimenta la lotta razziale e alla quale – mentre nel Paese continua a crescere il numero delle persone di colore – né la nostra democrazia né la nostra economia potranno resistere a lungo. Non è il futuro che voglio per Cristina, mi dissi mentre osservavo lei e la sua famiglia indirizzarmi un cenno d’addio. Non è il futuro che voglio per le mie figlie” (L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo, Rizzoli, 2007, pp. 272-274).

“Portata in America a quattro anni, aveva con sé solo un crocefisso, una bambola e il vestitino increspato che indossava. Quando ha iniziato la scuola, non parlava inglese. Si è rimessa in pari con gli altri alunni leggendo quotidiani e guardando la televisione e alla fine è diventata una brava allieva. Suo padre lavorava come giardiniere, la madre faceva le pulizie in case private […] Oggi Astrid Silva è una studentessa universitaria che sta studiando per la sua terza laurea. Siamo una nazione che espelle un’immigrata tenace e promettente come Astrid, o siamo una nazione che trova il modo per accoglierla?” (Un mondo degno dei nostri figli, Garzanti (Edizione speciale per Corriere della Sera), 2017, p. 184).

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