È una peculiare forma linguistica impiegata per potenziare il messaggio e dunque per rendere più incisivo il discorso. Infatti solitamente con il ricorso a essa si produce un sovrappiù di senso, con il passaggio da un piano denotativo (informativo, referenziale) a un piano connotativo (allusivo, evocativo, affettivo, valutativo). Olivier Reboul ha constatato: “Si discosta dall’espressione banale, ma precisamente perché è più ricca, più espressiva, più parlante, più adeguata, in una parola più giusta di tutto ciò che potrebbe trovarsi al suo posto” (Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, p. 87). Un simile fenomeno non si verifica solo nella letteratura.
Per esempio, riferendosi all’allocuzione pronunciata da Martin Luther King al Lincoln Memorial di Washington, il 28 agosto 1963, durante una marcia nonviolenta per i diritti civili dei neri d’America, Valentina Pisanty ha osservato: “Non c’è dubbio che un’espressione come ‘trasformare le sferraglianti discordie della nostra nazione in una meravigliosa sinfonia di fratellanza’, che evoca l’immagine di una congregazione estatica nell’atto di cantare un gospel, sia più interessante di ‘vogliamoci bene’ o ‘l’unione fa la forza’” (Le belle parole. Churchill, Martin Luther King: qualità ed efficacia del discorso politico).
Analogamente la memorabile esortazione rivolta da John F. Kennedy a ogni americano: “Non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa tu puoi fare per il tuo paese”, come hanno rilevato Alberto Cattaneo e Paolo Zanetto, “suona sicuramente molto meglio rispetto a dire ‘I tuoi doveri di cittadino sono importanti, molto più importanti, senza dubbio, dei doveri che la nazione nel suo complesso ha nei tuoi confronti come individuo’” (Elezioni di successo. Manuale di marketing elettorale, Etas, 2003, p. 198).
Anche Barack Obama ottenne un effetto particolare, quando, intervenendo all’Università del Cairo nel 2009, anziché sostenere: “È ora di porre fine alla guerra tra Israeliani e Palestinesi”, affermò: “Basta lanciare razzi sui bambini che dormono!”.
È degno di nota che King utilizza un’antitesi e una metafora, Kennedy un chiasmo e Obama una metalepsi. Con formulazioni così inventive, chi parla colpisce l’attenzione e suscita la curiosità di chi ascolta e tali risultati costituiscono il presupposto della persuasione. Secondo Jacques Séguéla, “per convincere, ogni politico deve sacrificare alla forma, se vuole imporre il contenuto. E ciò non significa che il contenuto faccia difetto. Esso è sempre il motore, ma la forma è il carburante senza il quale il contenuto non può imporsi” (Eltsin lava più bianco. Un mago della pubblicità al servizio degli uomini politici, Sonzogno, 1992, p. 185).
Di questo pubblicitario, divenne famoso lo slogan “la forza tranquilla”, incentrato sull’ossimoro e inventato nel 1981 per François Mitterand, il candidato socialista alla Presidenza della Repubblica francese, nell’ambito di un’efficace campagna che ne favorì la vittoria.
Occorrenze di usi non comuni del linguaggio sono innumerevoli pure nell’advertising. Per Giampaolo Fabris, “la maggior parte delle ‘idee creative’ che sottostanno ai migliori annunci possono essere interpretate come la trasposizione (consapevole e non) delle figure classiche” (La pubblicità, teorie e prassi, Franco Angeli, 1992, p. 290).
In precedenza, Jacques Durand aveva asserito: “Ciò che la retorica può apportare alla pubblicità è soprattutto un metodo per la creazione. Nella creazione pubblicitaria regna attualmente il mito dell’‘ispirazione’, dell’‘idea’. Non è un caso che le idee più originali, gli annunci più audaci appaiano come la trasposizione di figure retoriche individuate ed analizzate da numerosi secoli. Ciò spiega perché la retorica può essere considerata come una sommatoria di modi diversi per essere ‘originali’. È dunque probabile che il processo creativo possa essere facilitato e arricchito se i creativi prendono piena coscienza di un sistema che sino ad oggi hanno impiegato istintivamente” (“Rhetorique et image pubblicitarie”, in Communication, 15, 1970).
Al di là delle classificazioni più tradizionali (di pensiero, di significazione, di dizione, di elocuzione, di costruzione, di ritmo), riveste un peculiare interesse la distinzione operata da Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca (Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013), sulla base della funzione argomentativa, fra figure della scelta, della presenza, della comunione, giacché “l’effetto o uno degli effetti di alcune figure […] è quello di imporre o suggerire una scelta, di accrescere la presenza o di attuare la comunione con l’uditorio” (p. 187).
Per esempio, la definizione retorica è utile per “dar rilievo ad alcuni aspetti di una realtà che rischierebbero di rimanere oscuri” (p. 187).
Invece figure come l’onomatopea “hanno per effetto di rendere attuale alla coscienza l’oggetto del discorso” (p. 189).
Riguardo all’obiettivo “di creare o di confermare la comunione con l’uditorio” (p. 192), l’allusione “esercita certamente una funzione di questo genere” (p. 192). Inoltre “la comunione si accresce ugualmente per mezzo di tutte le figure con le quali l’oratore si sforza di far partecipare attivamente l’uditorio alla sua esposizione, prendendolo a parte di essa, sollecitando il suo concorso, assimilandosi a lui” (p. 193), come avviene con la domanda retorica, l’enallage della persona e l’enallage delle persone.
Ci sono dei procedimenti, che, per Perelman e Olbrechts-Tyteca, costituiscono figure di rinuncia, che “non esprimono soltanto la moderazione dell’oratore”, come succede con la reticenza: infatti con la preterizione, ossia “l’immaginario sacrificio di un argomento”, s’induce l’uditorio a pensare che “gli altri argomenti siano abbastanza forti da poter fare a meno di quello” (p. 524).
Infine le figure di attenuazione “danno un’impressione favorevole di ponderatezza, di sincerità e concorrono a distogliere dall’idea che l’argomentazione sia un espediente, un artificio” (p. 503). E così, con la litote, come ha sostenuto un letterato settecentesco, al quale si richiama Pierre Fontanier (Les figures du discours), “si dice meno di ciò che si pensa; ma si sa bene che non si sarà presi alla lettera; e che si farà intendere più di quanto si dica” (Riportato in Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, 1991, p. 179).