Gabriele D’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1903

È un’opera costituita da quattro strofe, ciascuna di 32 versi liberi e contraddistinta dalla rima* sciolta, ma si individua quella interna (“umane”, “lontane” nei versi 4 e 7, “dita”, “vita” nei versi 51 e 55, “pianto”, “canto” nei versi 69 e 71, “nere”, “piacere” nei versi 97 e 99), quella a eco (“sparse”, “arse” nei versi 9 e 11, “pensieri”, “ieri” nei versi 26 e 30, “verdura”, “dura” nei versi 35-36: gli ultimi due sono esempi pure di rima ricca), quella martellante (“varia nell’aria” nel verso 37, “al pianto il canto” nel verso 41, “chi sa dove! / E piove” nei versi 94-95 e 115-116), quella imperfetta o quasi-rima, così chiamata perché cambia un fonema (“secondo” e “fronde” nel verso 38, “pianga” e “bianca” nei versi 98 e 99), quella baciata (in numerosi versi), quella incrociata (“pini”, “irti”, “mirti”, “divini” nei versi 12-15, “fulgenti”, “accolti”, “folti”, “aulenti” nei versi 16-19). La relazione tra “fulgenti” e “aulenti” offre la possibilità di trattare del fenomeno dell’isomorfismo*: i due termini si somigliano per il suono e si equivalgono morfologicamente (genere femminile e numero plurale), sintatticamente (sono participi presenti e aggettivi) e semanticamente, poiché appartengono al campo sensoriale (però c’è la differenza vista / olfatto).

Con l’elemento principale, che distingue la poesia dalla prosa, risulta affine l’assonanza*: “parole” e “nuove” (v. 5), “pioggia” e “foglia” (vv. 57 e 58), “fronda” e “folta” (vv. 86 e 87), “ombra” e “onda” (v. 93).

La paronomasia*, consistente in un’analoga sonorità, riguarda: “tamerici” e “salmastre” (vv. 10 e 11), “ciel” e “cinerino” (v. 45), “ombra” e “remota” (v. 74). Si definisce per inclusione, quando tutti i fonemi di una parola sono compresi all’interno di un’altra, che di conseguenza la contiene: “salmastre” e “arse” (v. 11), “cicale” e “ciel” (vv. 42 e 45), “mirto” e “stromenti” (vv. 47 e 49), “arborea” e “ebro” (vv. 55 e 56), “nome” e “Ermione” (vv. 63 e 64), “trema” e “mare” (vv. 79 e 80), “Ermione” e “nere” (vv. 96 e 97), “palpebre” e “erbe” (vv. 106 e 107).

Al pari di qualunque figura fonica* a produrre una certa musicalità contribuisce l’enjambement*, con le sue pause e immediate riprese (i molteplici casi sono facilmente riconoscibili).

Rileviamo inoltre l’allitterazione* e, associata a essa, l’armonia imitativa*, una forma d’iconismo fonosimbolico*. Per mezzo di “taci” (v. 1), “dici” (v. 3), “gocciole” (v. 6), “tamerici” (v. 10), sembra di sentire il lieve rumore di una pioggerella che cade sulla vegetazione, ossia quanto si espone nei versi 2-7: “Non odo / parole che dici / umane; ma odo / parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane”. Si noti l’impiego del verbo intransitivo “parlare” come se fosse transitivo, sostituibile nella parafrasi con “pronunciare”. In qualche modo le cose (le gocciole e le foglie) diventano persone. Un’ulteriore personificazione si trova nei versi 49-51, perché il pino, il mirto, il ginepro sono “stromenti / diversi / sotto innumerevoli dita” (le gocce della pioggia, che viene dunque personificata).

Mediante “odi” (v. 33), “cade” (v. 33), “verdura” (v. 35), “dura” (v. 36), “secondo” (v. 38), “fronde” (v. 38), “rade” (v. 39) e, più avanti, “mirto” (v, 47), “altro” (vv. 48 e 49), “ginepro” (v. 48), “stromenti” (v. 49), pare di avvertire un’intensificazione della precipitazione atmosferica (con il fonema /d/) e poi il passaggio al temporale (con i gruppi consonantici /rt/, /tr/, /pr/, /str/ uniti alla vocale /o/).

Il parallelismo fonico-semantico concerne quindi il tema naturalistico-musicale, sviluppato con il racconto della pioggia che batte sulla flora, a cui si unisce il frinire delle cicale, nei versi 40-42 e il gracidio di una rana, nella terza strofa. Sono intenti ad ascoltare un simile concerto il poeta e Ermione, la donna che lo accompagna in una passeggiata in una pineta in prossimità del mare, in una giornata estiva ma per l’appunto piovosa.

Dall’onomatopea*, mirante alla riproduzione di un suono direttamente, hanno origine le voci onomatopeiche “crepitio” (v. 36), “crosciare” (v. 82) e “croscio” (v. 85).

Con l’isocolo* si crea un ritmo, il quale “ha per gli antichi un’importanza capitale, perché è la musica del discorso, ciò che rende l’espressione armoniosa o sorprendente, sempre facile da ricordare” (Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, p. 133). Quattro occorrenze di una perfetta simmetria fra membri di un costrutto linguistico, per numero di termini e per struttura sintattica, si contano nella prima strofa: “Piove su le tamerici / salmastre ed arse, / piove su i pini / scagliosi ed irti” (vv. 10-13), “su le ginestre fulgenti / di fiori accolti, / su i ginepri folti / di coccole aulenti” (vv. 16-19), “piove su i nostri volti / silvani, / piove su le nostre mani / ignude” (vv. 20-23), “che ieri / t’illuse, che oggi m’illude” (vv. 30-31). Sono all’interno di un’accumulazione*, caratterizzata per giunta dall’anafora* (si usa “piove”, complessivamente per sei volte, all’inizio di proposizioni o periodi successivi). L’elencazione di dettagli – costituiti pure da piante indicate con i loro nomi (“tamerici”, “pini”, “mirti”, “ginestre”, “ginepri”), accompagnati da aggettivi qualificativi – e l’iterazione di un vocabolo rientrano tra le figure della presenza, che “hanno per effetto di rendere attuale alla coscienza l’oggetto del discorso” (Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 189).

Lo stesso risultato si ottiene seguendo, nella narrazione e nella descrizione, il criterio sensoriale, registrando i dati emergenti attraverso i sensi: nello specifico, non solo le sensazioni maggiormente coinvolte nella percezione, le visive (“fulgenti” [splendenti] nel verso 16, “cinerino” nel verso 45, “nere” nel verso 97, “virente” [verdeggiante] nel verso 100, “verde” nel verso 112) e le uditive (“ascolta” nei versi 8, 40, 65 e 88, “odo” nel verso 4, “ode” nel verso 81, “canto” nei versi 41 e 71, “accordo” [canto concorde] nel verso 65, “canta” nel verso 93), ma perfino le olfattive (“aulenti” [profumate] nel verso 19) e le tattili (“freschi” nei versi 26 e 122, “molle” nel verso 57). Ne deriva l’impressione del lettore di essere veramente davanti a quanto rappresentato. Si potenzia il fenomeno con la sinestesia*: “E le tue chiome / auliscono come / le chiare ginestre” (vv. 59-61), “umida ombra” (v. 74), “or s’ode su tutta la fronda / crosciare / l’argentea pioggia” (v. 81-83), “E tutta la vita è in noi fresca / aulente” (vv. 102-103).

È degno di nota, per il loro valore letterario, l’impiego in tale ambito di “fulgenti”, “aulenti”, “auliscono”, “virente” e, in varie parti, di “silvani” [da “selva”] (vv. 21 e 117), “ignude” (vv. 23 e 119), “vestimenti” (vv. 24 e 120), “schiude” [libera] (vv. 27 e 123), “novella” [rinnovata] (vv. 28 e 124), “verdura” [il verde della vegetazione] (v. 35), “impaura” (v. 44), “mesce” [mischia] (v. 71), “monda” [purifica] (v. 84). Analogamente la prerogativa di impreziosire il testo poetico è propria del metaplasmo*: individuiamo l’apocope* (“siam” nel verso 53, “andiam” nel verso 110), la sincope* (“spirto” nel verso 53), il metaplasmo per sostituzione (“stromenti” nel verso 49). In aggiunta le parole rare svolgono una funzione d’insistenza, giacché l’emittente del messaggio le utilizza per attirare o ravvivare l’attenzione del ricevente e per rafforzare un’idea: “Dinanzi a un termine inaspettato, [si] attribuisce ad esso maggiore importanza” (Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit., p. 157).

Riguardo ai procedimenti incentrati sulla ripetizione, abbiamo inoltre l’epifora* (“si spegne” alla fine di due periodi successivi e di due versi consecutivi, nei versi 75-79), l’anadiplosi* (“Piove sulle tue ciglia” a conclusione della terza strofa e in principio della quarta), l’epizèusi* (“Ascolta, ascolta” nel verso 65, “Chi sa dove, chi sa dove!” nei versi 94 e 115). Nelle parti finali della prima e della quarta strofa (vv. 20-32 e 116-128), troviamo il ritornello: si riprende un intero brano, che si estende per tredici versi.

Ci sono due ulteriori enumerazioni, ognuna con uno dei due temi fondamentali che si alternano nell’opera: il naturalistico-musicale e il fantastico e magico. Nella prima, che è per polisindeto* (iterazione della congiunzione), leggiamo: “E il pino / ha un suono, e il mirto / altro suono, e il ginepro altro ancora” (vv. 46-49). Ed ecco la seconda: “Il cuor nel petto è come pèsca / intatta, / tra le palpebre gli occhi / son come polle tra l’erbe, / i denti negli alveoli / son come mandorle acerbe” (vv. 104-109). Essa include un duplice chiasmo* (“il cuor nel petto”: soggetto + complemento di stato in luogo, “tra le palpebre gli occhi”: complemento di stato in luogo + soggetto, “i denti negli alveoli”: soggetto + complemento di stato in luogo) e tre occorrenze della similitudine*, alle quali si sommano le due dei versi 56-61: “E il tuo volto ebro / è molle di pioggia / come una foglia, / e le tue chiome / auliscono come / le chiare ginestre”. I paragoni con il mondo vegetale concorrono allo sviluppo del nucleo concettuale della metamorfosi, della trasformazione (ideale) in creature del bosco, che è più palese nei seguenti passi: “Piove sui nostri volti / silvani” (vv. 20-21 e 116-117), “E immersi / noi siam nello spirto / silvestre, / d’arborea vita viventi” (vv. 52-55), “Non bianca / ma quasi fatta virente, / par da scorza tu esca. / E tutta la vita è in noi fresca / aulente” (vv. 99-103).

Tornando al confronto tra immagini, si attua in maniera più indiretta con la metafora*: nei versi 41, 43 e 69, si usa “pianto” al posto di “pioggia”. “Fronda” per “pineta” (v. 81) e “ciglia” per “viso” (v. 95) sono esempi di sineddoche* particolarizzante (sostituzione sulla base di una relazione di minore estensione tra i significati: la parte per il tutto).

In poesia è costante il ricorso all’anastrofe*, che permette di risolvere problemi concernenti la misura dei versi e i loro accenti e la posizione dei vocaboli rimanti. Non fa eccezione La pioggia nel pineto: “[Piove] su i freschi pensieri / che l’anima schiude / novella” (vv. 26-28 e 122-124), “E immersi / noi siam nello spirto / silvestre” (vv. 52-54), “d’arborea vita viventi” (v. 55), “Più sordo / si fa sotto il pianto / che cresce” (vv. 68-70), “Ma un canto vi si mesce / più roco” (vv. 71-72), “Par da scorza tu esca” (v. 101), “Tra le palpebre gli occhi” (v. 106), “E il verde vigor rude” (v. 112).

La terza strofa è quasi interamente occupata dalla “ritardata rivelazione di un nome” (in latino “retardatio nominis”). Possiamo considerarla una variante della costruzione rovesciata, che serve a posticipare l’elemento essenziale del discorso. Attraverso di essa si crea sospensione, si allunga l’attesa di chi ascolta o legge e si spinge in avanti la sua attenzione. Nello specifico, all’inizio si racconta il frinire delle cicale, che gradualmente si smorza a causa del rumore sempre più forte della pioggia. Poi, nel verso 71, si soggiunge: “Ma un canto vi si mesce”. Solo nel verso 92, però, posteriormente a una serie di particolari circostanziali, si apprende che è emesso da una rana, indicata nei due versi precedenti con una circonlocuzione*: “La figlia del limo”. Nel verso 89, con “la figlia dell’aria” si designa la cicala.

Il motivo centrale, il “procedimento retorico […] che funge da principio organizzatore del testo” (Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, p. 197) è costituito dall’apostrofe*: la sua presenza è dimostrata dai verbi coniugati alla seconda persona singolare e dal nome proprio “Ermione”, utilizzato in funzione di vocativo e ripetuto, con peculiare risalto, alla fine di ogni strofa. Il poeta interpella immediatamente la donna, con un’esortazione: “Taci”. In tre parole che vengono subito dopo, “su”, “soglie” e “bosco”, osserviamo l’allitterazione* e, anche questa volta associata a essa, l’armonia imitativa*, una forma d’iconismo fonosimbolico*, giacché si riproduce il suono con cui s’invita qualcuno al silenzio (sss). C’è dunque un rapporto tra un componente del significante (il fonema /s/) e il significato (“non parlare”).

 

Glossario

 

Epizèusi – Consiste nella ripetizione di una o più parole due o più volte senza che se ne frappongano di diverse. È un tipo di iconismo morfologico*, un rafforzativo di cui ci si avvale per aumentare l’intensità espressiva. Ciò avviene, nella canzone leopardiana A Silvia, nell’invettiva* con la quale l’autore si rivolge all’entità che sovraintende all’esistenza degli esseri umani: “O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?” (vv. 36-39).

Un certo numero di casi è documentato nel capitolo ottavo del romanzo I Promessi Sposi, nelle sequenze dedicate al matrimonio per sorpresa, alla penetrazione dei bravi nella casa di Lucia e all’arrivo dei protagonisti nella chiesa di Pescarenico: “Tutt’e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron nell’andito […] Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano”. “[Il Griso] picchiò pian piano […] Nessun risponde […] Accosta adagio adagio l’uscio di strada […] e va diritto all’uscio del terreno […] Sconficca pian pianissimo anche quell’uscio […] Sale adagio adagio”. “Renzo s’affacciò alla porta e la sospinse bel bello […] Entrati che furono, il padre Cristoforo riaccostò la porta adagio adagio”.

In Orfano di Giovanni Pascoli si evidenzia la ripetitività: “Lenta la neve fiocca fiocca fiocca” (v. 1) e “La neve fiocca lenta, lenta, lenta” (v. 8).

Con l’epizèusi in pubblicità si sottolinea specialmente l’unicità, l’esclusività, la genuinità: il collant-collant, il lievito-lievito, il caffè-caffè.

Sull’iconismo in generale si possono leggere: Fernando Dogana, Le parole dell’incanto. Esplorazioni dell’iconismo linguistico, Franco Angeli, 1990 e Fernando Dogana, “Iconismi verbali nel linguaggio della pubblicità”, in AA. VV., Il linguaggio della pubblicità, Mursia, 1991.

 

Bibliografia

 

Gianfranca Lavezzi, Breve dizionario di retorica e stilistica, Carocci, 2004.

Angelo Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Oscar Studi Mondadori, 1978.

Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, 1988.

Federico Roncoroni, Testo e contesto, Arnoldo Mondadori Editore, 1985.

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