Preterizione

Preterizione: Definizione, Significato, Esempi

/pre·te·ri·zió·ne/

 

La preterizione è una figura retorica che consiste nel dichiarare di voler tacere o di non poter dire ciò che però si afferma, dandogli in questo modo maggiore rilievo.

Effettivamente certe formule utilizzate nel discorso comune, come:

  • “per non dire…”
  • “meglio non parlare di…”
  • “non starò a raccontare…”
  • “avrei perfino potuto dirvi…” 
  • “inutile dire…”
  • “tralascio il fatto…”

ed altre simili, hanno una funzione enfatica, ma contemporaneamente, per mezzo di esse, si realizza un’attenuazione e il destinatario del messaggio, come hanno osservato Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “preso da fiducia per quest’eccesso di moderazione nelle conclusioni, va spontaneamente più in là di quanto avrebbe fatto se l’autore avesse voluto condurvelo per forza”. Si produce dunque “un’impressione favorevole di ponderatezza, di sincerità”, che contribuisce “a distogliere dall’idea che l’argomentazione sia un espediente, un artificio”. Tale figura retorica “è l’immaginario sacrificio di un argomento. Si dà uno schizzo di quest’ultimo annunciando che vi si rinuncia”. Così “il sacrificio soddisfa le convenienze, lascia credere inoltre che gli altri argomenti siano abbastanza forti da poter fare a meno di quello” (Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, pp. 503 e 524).

È nota anche come paralessi, paralissi o paralipsi.

Etimologia

Preterizione: dal latino praeterire, ovvero “andare oltre”, “tralasciare”, composto da praeter, “oltre” e ire, “andare”.

Preterizione: Esempi

Esistono numerosi esempi di preterizione non solo nelle formule rituali del discorso comune, ma anche in letteratura ed in politica. Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-TytecaII citano un’occorrenza ricavata dalla Retorica a Erennio: “Della tua infanzia, che tu hai prostituito a tutti, parlerei se credessi che questo momento fosse adatto: ma ora apposta non ne parlo” (1, IV, § 37).

I seguenti casi si trovano nell’orazione funebre tenuta da Antonio, nella tragedia Giulio Cesare di William Shakespeare:

“Non è opportuno che sappiate quanto Cesare vi amava” (v. 141)

“È bene che non sappiate che voi siete i suoi eredi” (v. 145).

Nella medesima opera si ricorre a un tipo particolare di preterizione, distribuita su una parte più ampia di testo. L’oratore proclama: “Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo” (v. 74), ma l’intento elogiativo emerge più avanti: “Egli era mio amico, leale e giusto con me” (v. 85), “Egli ha portato molti prigionieri a Roma, il cui riscatto ha riempito le casse dell’erario” (v. 88-89), “Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha pianto” (v. 91).

E ancora: “Io non parlo per smentire ciò che Bruto ha detto” (v. 100). In realtà l’intera allocuzione tende al raggiungimento di un simile obiettivo.

(in Opere scelte, Edizione Euroclub Italia, su licenza di Garzanti Editore, 1994, atto III, scena II, pp. 331-345).

La peculiare forma espressiva di cui stiamo trattando, viene utilizzata parimenti nella comunicazione politica. Nella campagna elettorale del 1996, durante un dibattito, a Silvio Berlusconi, che sosteneva di aver deciso di “scendere in campo”, perché “la libertà e la democrazia erano minacciate”, Massimo D’Alema rispose: “Io mi sono impegnato a non usare questi argomenti, non le dico, e Dio sa quanto mi costi, che qualcuno dei suoi alleati potrebbe minacciarla seriamente la libertà, smettiamola con queste cose” (Corriere della Sera, 16 marzo 1996, p. 6).

In occasione delle stesse elezioni, la impiegò pure Romano Prodi: “Facciamo per un momento finta di dimenticare tutto quello che abbiamo già visto del Silvio Berlusconi governante, quell’intrec­cio di interessi pubblici e privati tra Palazzo Chigi e Arcore che ha portato all’assalto della Rai e della Magistratura. Facciamo anche finta di scordare il peso determinante di Alleanza Nazionale, con il suo statalismo, la sua profonda avversione alle privatizzazioni e all’Europa. E, per concludere, facciamo anche finta che Silvio Berlu­sconi sia davvero il candidato premier del Polo, accantonando la possibilità, sempre più concreta, che l’uomo per il governo possa es­sere Gianfranco Fini” (La Repubblica, 28 marzo 1996, p. 2).

Più recentemente Matteo Renzi, in polemica con Beppe Grillo, ha scritto in un post: “Non voglio parlarti ad esempio di garantismo, quello che il tuo partito usa con i propri sindaci e parlamentari indagati e rifiuta con gli avversari” (Facebook.com/matteorenziufficiale, 4 marzo 2017).

Quando, invece, si fa semplicemente capire ciò che si vorrebbe sostenere, la preterizione, sulla base della classificazione operata da Perelman e Olbrechts-Tyteca, assume in aggiunta il valore di figura della comunione, giacché “l’oratore si sforza di far partecipare attivamente l’uditorio alla sua esposizione, prendendolo a parte di essa, sollecitando il suo concorso, assimilandosi a lui” (Trattato dell’argomentazione, p. 193). In tale funzione fu adoperata efficacemente in un discorso tenuto nel 1973, tra il primo e il secondo turno delle elezioni parlamentari francesi, da François Mitterand, candidato dell’alleanza social-comunista. Per stigmatizzare il capovolgimento attuato dal Mouvement Réforma­teur, egli disse: “Certi concepiscono collera, io provo soprattutto tri­stezza, per non pronunciare parole più dure che mi vengono in mente”. I termini più crudi, omessi volontariamente dall’emittente del messaggio, sono facilmente inseriti dal ricevente: essi potrebbero es­sere “disgusto”, “indignazione” ecc. Il pubblico ha quindi l’impressione che la sua opinione collimi con quella dell’uomo politico (B. Guhl, C. Schwarze, “Significato e referenza in un discorso elettorale”, in AA. VV., Retorica e politica, Liviana, 1977, p. 331).

Relativamente alla letteratura, un’occorrenza s’individua nel romanzo “I Promessi Sposi”. Nel capitolo VI, dopo aver raccontato lo scontro di padre Cristoforo con don Rodrigo, si riproduce un dialogo fra il primo e il “vecchio servitore” del secondo.

“Padre, ho sentito tutto e ho bisogno di parlarle”.

“Dite presto, buon uomo”.

“Qui no: guai se il padrone s’avvede… Ma io so molte cose; e vedrò di venire domani al convento”.

“C’è qualche disegno?”.

“Qualcosa per aria c’è di sicuro: già me ne son potuto accorgere. Ma ora starò sull’intesa e spero di scoprir tutto. Lasci fare a me. Mi tocca a vedere e a sentir cose…! cose di fuoco! Sono in una casa…! Ma io vorrei salvar l’anima mia”.

“Il Signore vi benedica! […] “Il Signore vi ricompenserà” […] “Non mancate di venir domani”.

Poi il narratore commenta l’accaduto e, nonostante la sua dichiarazione finale, s’intuisce che condivide le scelte dei personaggi: “Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come un’eccezione? E ci sono dell’eccezioni alle regole più comuni e men contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sé, se ne ha voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d’aver dei fatti da raccontare”.

Giacomo Leopardi ricorse alla preterizione, prevalentemente come figura della comunione, nella canzone libera “A Silvia”. Il poeta riconosce che “lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno” (vv. 26-27). Nondimeno la bellezza delle emozioni da lui vissute in alcuni momenti dell’adolescenza è facilmente comprensibile. Nello specifico si registra una coincidenza con l’adynaton, nel senso di procedimento consistente nell’affermare l’impossibilità di trovare un’espressione adeguata.