Salvini, l’Europa e i suoi 60 milioni di figli

Un campo metaforico frequentemente impiegato in politica è la famiglia. È il caso di Matteo Salvini, padre di 60 milioni di italiani

Francesca Ri­gotti ha mostrato il ricorso al tema della famiglia nella produzione discorsiva del rivoluzionario boliviano Simon Bolivar (1826), del primo ministro prussiano Ottone di Bismarck (1871), del capo del governo inglese Winston Churchill (1954) e del borgomastro di Berlino Ovest Willy Brandt (1961) (1).

In Italia l’hanno utilizzato, per esempio, Alcide De Gasperi e Silvio Berlusconi. Ultimo è arrivato Matteo Salvini, che in un comizio ha osservato: “Se mio figlio ha fame e mi chiede di dargli da mangiare e Bruxelles mi dice ‘no, le regole europee ti impongono di non dare da mangiare a tuo figlio’, secondo voi io rispetto le regole di Bruxelles o gli do da mangiare? Secondo me viene prima mio figlio, i miei figli sono 60 milioni di italiani”.

Le ultime due proposizioni sono collegate con l’anadiplosi, la ripetizione di una o più parole alla fine di una frase e all’inizio della successiva (“mio figlio” – “i miei figli”). Nel passaggio dall’una all’altra si registra una progressione e quindi un’intensificazione, perché il secondo segmento (“60 milioni di italiani”) è più ricco di significato rispetto al primo (“mio figlio”): è la caratteristica del climax.

Tuttavia, al di là delle figure retoriche, nella riflessione del vicepremier colpisce specialmente una fallacia, una falsa argomentazione: più precisamente un argomento che “può essere definito tendenzioso quando viene presentato in maniera tale da amplificarne (in maniera positiva o negativa) alcuni dei suoi connotati, conferendogli così un’accezione particolarmente positiva (o negativa) in base all’esigenza” (2).

Franca D’Agostini ha parlato di strategie di semplificazione, le quali “hanno lo scopo di far passare contenuti non veri rendendoli credibili perché facilmente comprensibili: è molto più facile credere vere tesi uniformanti, che trascurano la varietà e le differenze, piuttosto che perdersi nei dettagli” (3).

Nella fattispecie si possono ovviamente criticare le decisioni prese dalle istituzioni dell’UE, ma indurre a pensare che affamino la popolazione è evidentemente eccessivo. Una simile approssimazione è frutto non di spontaneità, come si potrebbe credere, bensì di una scelta consapevole. Deriva dall’intenzione dell’emittente del messaggio di manifestare al ricevente una duplice prossimità: sia tematica, riguardo alla situazione di disagio economico e sociale; sia linguistica, con sintagmi come “avere fame” e “dare da mangiare”. Ancora una volta dunque il segretario della Lega, rivolgendosi alla pancia e non alla testa del Paese, si è lasciato andare a un’affermazione propagandistica. Essa risulta di notevole efficacia per chi vive in condizioni (più o meno) difficili e avverte il bisogno d’individuare in qualcuno il responsabile dei suoi problemi, verso il quale sfogare il proprio rancore. Naturalmente l’odio, suscitato da un uomo politico, non è fine a sé stesso, ma funzionale al raggiungimento di un obiettivo specifico: ottenere il consenso per mezzo del voto. Lo strumento adottato si ispira al seguente principio: i nemici dei miei nemici sono miei amici, ossia a uno degli argomenti di transitività. Nella classificazione di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, rientrano fra quelli che “pretendono di avere una certa forza di convinzione, in quanto si presentano confrontabili a ragionamenti formali, logici, o matematici […] È questa la ragione per cui li definiamo quasi-logici” (4).

Giuseppe Sala ha cercato con una certa ironia di banalizzare l’immagine di buon padre di famiglia, offerta dal ministro dell’Interno, impiegando il medesimo settore lessicale della parentela: “Io non lo voglio nemmeno come zio”, sottintendendo: figurarsi come genitore. Ha fatto ricorso in modo implicito, ma chiaro, al procedimento a fortiori [“a più forte (ragione)”] (5).

In un’intervista Romano Prodi per criticare la politica del vicepremier ha attuato il cosiddetto “risveglio di una metafora assopita”, servendosi comunque di espressioni figurate.

Domanda: “[…] Matteo Salvini è […], come si legge in un hashtag, uno che ‘tira dritto’?”.

Risposta: “È vero, Salvini tira dritto ma non tiene conto delle curve. Siamo di fronte a una grande curva e ha il problema di guidare il veicolo Italia. Non è semplice e ha tenuto una velocità eccessiva e quindi avrà grossi problemi”.

D.: “Quali sono le curve che l’Italia dovrà affrontare?”.

R.: “La grande curva è la legge di bilancio, sintesi di tutto, ma ci arriviamo senza fiato, non abbiamo benzina nel motore” (6).

Note

(1) Francesca Ri­gotti, Il potere e le sue metafore, Feltrinelli, 1992, pp. 77-79.

(2) Giuseppe Sergioli, Fallacie argomentative, in sito web.

(3) Franca D’Agostini, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, 2010, p. 163.

(4) Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 209.

(5) Cfr. “L’argomento a fortiori, dalla Ceres a Beppe Sala”, pubblicato nel nostro sito il 2 luglio 2019. Sia la dichiarazione di Matteo Salvini, sia la replica del sindaco di Milano, sono riportate in Corriere della Sera, 7 giugno 2019, p. 9. Però è necessario aggiungere che nell’opera di demolizione di una metafora utilizzata dagli avversari, probabilmente il primato spetta, per il suo sarcasmo, a Bettino Craxi: “I repubblicani dicono di essere i cani da guardia del rigore. A questi cani noi diciamo: a cuccia!”.

(6) la Repubblica, 10 giugno 2019, p. 3. Su “espressioni con senso metaforico o metafore assopite” si veda Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit., pp.440-445.