Successive generazioni o prossime elezioni? La differenza tra statisti e politici

di Giorgio Matza

<Siamo destinati a finire tutti così, l’unico scopo allora è lasciare un mondo migliore per i nostri figli, come ha fatto il mio amico Helmut>: lo ha detto Bill Clinton nell’orazione funebre per Kohl, tenuta al Parlamento di Strasburgo, il 1° luglio 2017 (1). Malgrado non abbia più responsabilità di governo da oltre un quindicennio, con la sua propensione per l’avvenire, l’ex presidente americano ha rivelato una mentalità ancora da statista (evidentemente chi lo è stato in passato, continua a esserlo per sempre). Ha utilizzato dunque uno strumento retorico di ordine affettivo, l’ethos, cioè <il carattere che deve assumere l’oratore per accattivarsi l’attenzione e guadagnarsi la fiducia dell’uditorio>. Infatti <quali che siano i suoi argomenti logici, essi non hanno alcun potere senza questa fiducia> (2).

Guardare avanti è sempre stata una sua caratteristica, prima da governatore dell’Arkansas e poi da comandante in capo degli Stati Uniti d’America. Lo dimostrano alcuni passi della sua autobiografia:

<Ero deciso ad applicare fino in fondo gli standard scolastici e a lavorarci sopra; era l’unica possibilità per tanti bambini poveri del mio Stato di ottenere un futuro migliore. La scuola elementare di Chelsea era frequentata per circa il 60% da neri e più della metà dei ragazzi provenivano da famiglie a basso reddito. Ricordo che un compagno di classe, invitato al suo compleanno, stava per non venire perché non aveva i soldi per comprarle un regalo. Ero deciso a dare a quel ragazzino opportunità migliori di quelle avute dai suoi genitori>

<Lo slogan “più spesa, meno tasse” suonava bene e sapeva di buono, ma avrebbe fatto precipitare il nostro paese in un profondo baratro e gettato un’ombra sul futuro dei nostri figli>

<“Daremo un futuro a questi bambini. Toglieremo le pistole dalle loro mani e in cambio ci metteremo dei libri. In cambio della disperazione daremo loro speranza”>

<Alla fine della prima settimana di giugno [1995], misi il mio primo veto a un disegno di legge con cui i repubblicani proponevano un taglio alle spese per 16 miliardi di dollari, poiché andava a scapito dell’istruzione, del servizio civile e dell’ambiente […] Mi offrii di lavorare con loro per operare tagli anche maggiori, ma dissi che il denaro risparmiato sarebbe dovuto venire dai fondi pubblici impiegati in progetti locali al solo fine di ottenere voti e da altre spese superflue, non dagli investimenti per i nostri figli e il nostro futuro>

<Andai a Boston per una raccolta di fondi per il senatore John Kerry, che si era candidato per essere rieletto […] Aveva dedicato moltissimo tempo al problema della violenza giovanile, una questione che aveva a cuore da quando era pubblico ministero. Avere a cuore un problema che non procura voti oggi ma che avrà un notevole impatto sul futuro è un’ottima qualità in un politico> (3).

Lo stesso modo di ragionare appartiene a Barack Obama e attraverso le sue parole (“futuro”, “nostri figli”, come d’altronde in Bill Clinton) si delinea il medesimo strumento retorico dell’ethos, costituito dalla personalità dello statista che guarda alle successive generazioni e non del politico che pensa alle prossime elezioni:

<Credo sia questo ciò che mi dà soddisfazione oggi: essere utile alla mia famiglia e alla gente che mi ha eletto, lasciando un’eredità che dia ai nostri bambini più speranza di quanta ne abbiamo avuta noi>

<Una bambina sui sette-otto anni, seguita dai genitori, si avvicinò e mi chiese un autografo: a scuola stava studiando il governo, mi spiegò e l’avrebbe mostrato alla classe. Le domandai come si chiamasse. Mi rispose che il suo nome era Cristina e frequentava la terza; dissi ai suoi genitori che dovevano essere orgogliosi di lei e mentre osservavo la bimba tradurre in spagnolo le mie parole, mi resi conto che l’America non ha nulla da temere da questi nuovi venuti […] Il pericolo si presenterà se non riusciremo a riconoscere l’umanità di Cristina e della sua famiglia, se li priveremo dei diritti e delle opportunità che diamo per scontati, tollerando l’ipocrisia di una classe servile in mezzo a noi; o, più in generale, se resteremo con le mani in mano mentre l’America continua a diventare sempre più ineguale, un’ineguaglianza che segue distinzioni di razza e quindi alimenta la lotta razziale e alla quale – mentre nel Paese continua a crescere il numero delle persone di colore – né la nostra democrazia né la nostra economia potranno resistere a lungo. Non è il futuro che voglio per Cristina, mi dissi mentre osservavo lei e la sua famiglia indirizzarmi un cenno d’addio. Non è il futuro che voglio per le mie figlie> (4).

Alla fine dell’ultimo estratto l’allora senatore democratico ha indicato, al di là della loro differente condizione, ciò che accomunava le sue due figlie e una bambina latino-americana immigrata negli Stati Uniti: il diritto ad un avvenire migliore.

Nei discorsi pronunciati rispettivamente a Bettendorf (Iowa), il 7 novembre 2007 e a Berlino, il 24 luglio 2008, Barack Obama disse:

<Ogni americano ha il diritto di inseguire i propri sogni, ma abbiamo anche la responsabilità di far sì che i nostri figli possano andare più lontano e migliorare la condizione rispetto a noi>

<Occorre decidere una volta per tutte che non lasceremo ai nostri figli un mondo in cui gli oceani si sollevano, le carestie dilagano e terribili uragani devastano le nostre terre. Occorre fare in modo che tutte le nazioni – compresa la mia – assumano con pari serietà della vostra l’impegno di ridurre le emissioni di carbonio nell’atmosfera. È giunto il momento di restituire ai nostri figli il loro futuro> (5).

Inoltre in un suo libro autobiografico, già citato, si può leggere:

<Mi piace ripetermi che continuerò a valutare le questioni a seconda dei meriti […] Spero di poter sempre andare dagli amici del sindacato e spiegare perché ha senso la mia posizione, in che modo è coerente sia con i miei valori sia con i loro interessi a lungo termine>

<Per rispondere alla globalizzazione nel modo migliore non dobbiamo limitarci a individuare le politiche giuste, ma bisogna anche cambiare atteggiamento, essere disposti ad anteporre i nostri interessi comuni e quelli delle future generazioni ai vantaggi a breve termine> (6).

Durante il suo secondo mandato presidenziale, nel discorso per il cinquantesimo anniversario delle marce da Selma a Montgomery, il 7 marzo 2015, Barack Obama ha raggiunto una particolare intensità espressiva, quando così ha incitato il pubblico: <Onoriamo coloro che hanno camminato affinché noi potessimo correre. E noi dobbiamo correre cosicché i nostri figli possano spiccare il volo> (7).

Auspicando un continuo miglioramento, nel passaggio da una classe d’età all’altra, l’allora presidente americano ha fatto ricorso a un argomento (nel senso di prova portata a favore di una tesi), quello del superamento, che consiste, secondo Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, nella <possibilità di andare sempre più lontano in un senso determinato, senza che si intravveda un limite in questa direzione e ciò con un continuo aumento di valore> (8).

Al principio che si sintetizza nella formula “uno statista guarda alle successive generazioni, mentre un politico pensa alle prossime elezioni”, si è ispirata pure Hillary Clinton nella campagna per la presidenza degli Stati Uniti d’America. Infatti nel primo confronto diretto con Donald Trump, tenutosi il 26 settembre 2016, ha affermato: <La questione principale di questa elezione riguarda il tipo di Paese che vogliamo essere e il futuro che vogliamo costruire insieme. Oggi è il secondo compleanno della mia nipotina e ci penso parecchio> (9).

In Italia, Silvio Berlusconi si è presentato come potenziale uomo di Stato, in polemica con gli avversari, considerati politici di vecchio stampo, già nel primo discorso pubblico, il cosiddetto “messaggio alla nazione” (quello della discesa in campo, trasmesso da Rete 4 il 26 gennaio 1994): <Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano>.

NOTE

(1) Riportato in Corriere della Sera, 2 luglio 2017, p. 7.

(2) OLIVIER REBOUL, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, pp. 21 e 69.

(3) BILL CLINTON, My Life, Mondadori, 2004, pp. 356, 489, 601, 708-709, 709-710.

(4) BARACK OBAMA, L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo, Rizzoli, 2007, pp. 362 e 272-274).

(5) BARACK OBAMA, La promessa americana. Discorsi per la presidenza, Donzelli, 2008, pp. 117, 161.

(6) BARACK OBAMA, L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo, Rizzoli, 2007, pp. 128 e 197).

(7) BARACK OBAMA, Un mondo degno dei nostri figli, Garzanti (Edizione speciale per “Corriere della Sera”), 2017, p. 200.

(8) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 312.

(9) Riportato in Corriere della Sera, 28 settembre 2016, pp. 8-9.