Un discorso dell’odio: l’orazione funebre di Antonio nel “Giulio Cesare” di Shakespeare

di Giorgio Matza

Sempre più si avverte l’esigenza di scoprire le tecniche persuasive, che vengono applicate per produrre messaggi, con cui si esprimono anche sentimenti negativi. Come ha osservato Flavia Trupia, “conoscere le strategie della retorica è un vaccino contro la manipolazione e il populismo, che usano a piene mani gli strumenti della persuasione”. Infatti “la retorica non è né buona né cattiva: è uno strumento che può essere utilizzato in modo costruttivo o per fini opachi. E il limite è spesso sottile” (1).

Si trovano esempi pure in opere letterarie. Uno è sicuramente costituito dalla tragedia Giulio Cesare di William Shakespeare (1564-1616). Più precisamente, Antonio si propone di vendicare l’uccisione di Cesare, provocando l’odio del popolo contro i suoi autori, ossia Bruto e gli altri congiurati. A tal fine nell’orazione funebre (2) ricorre ovviamente innanzitutto al pathos, un elemento retorico di ordine affettivo. Cicerone nelle Partitiones oratoriae sosteneva: “Ci sono due tipi di argomentazione: uno tende direttamente a convincere, l’altro vuol arrivare allo scopo indirettamente, suscitando emozioni” (3), cioè attraverso la mozione degli affetti. Lo scrittore latino se ne era già occupato nell’opera Dell’oratore, che raccoglie le riflessioni di altri maestri di retorica. Considerevole interesse, per i consigli contenuti, presenta il seguente intervento di Marco Antonio: “[42, 178] Nell’eloquenza non c’è nulla […] di più importante per l’oratore che acquistarsi la simpatia degli uditori e fare in modo che essi siano talmente commossi, da giudicare non attraverso un giudizio ponderato della mente, ma sotto la spinta di un impetuoso movimento dell’animo. Gli uomini, effettivamente, si fanno guidare, nell’emettere un giudizio, più dall’odio o dall’amore o dal desiderio o dall’ira o dal dolore o dalla gioia o dalla speranza o dal timore o dall’errore o da qualche altro sentimento dell’animo che dalla verità o da un’ordinanza o da un principio giuridico o da una norma del tribunale o dalle leggi”. Di qui la necessità di spingere “[44, 185] a odiare o ad amare o a essere ostili o ad assolvere o a temere o a sperare o a provare simpatia, avversione, gioia, dolore, compassione, desiderio di punizione e tutti quegli altri sentimenti affini a questi”, che “bisogna suscitare […] per mezzo della parola […] ma è tanta la forza della parola” (4).

Per raggiungere il suo obiettivo, Antonio si rivolge al suo pubblico così: “Se avete lacrime, preparatevi a versarle ora. Tutti voi conoscete questo mantello […] Guardate, in questo punto è penetrato il pugnale di Cassio; guardate che squarcio ha fatto il perfido Casca; e per questo buco ha pugnalato il tanto amato Bruto e quando ha estratto il suo ferro maledetto, osservate come il sangue di Cesare l’ha inseguito, quasi precipitandosi all’aperto ad accertarsi se era stato Bruto o no a battere così snaturatamente, perché Bruto, come sapete, era l’angelo di Cesare. Giudicate voi, oh dèi, quanto caramente Cesare l’amava. Questo fu, di tutti, il taglio più crudele; perché quando il nobile Cesare lo vide vibrare il colpo, l’ingratitudine, più forte delle armi dei traditori, lo vinse del tutto; allora scoppiò il suo cuore possente e, coprendosi il volto col mantello, […] il grande Cesare cadde. Oh, che caduta fu quella, miei concittadini! Allora io e voi e noi tutti quanti cademmo, mentre il tradimento sanguinario trionfava su di noi. Oh, ora voi piangete e sento che provate la forza della pietà. Queste sono lacrime giuste. Anime gentili, perché piangete solo a guardare la veste ferita del nostro Cesare? Guardate qui! Qui c’è lui stesso, sfigurato, come vedete, dai traditori” (vv. 166-194).

Ma, al di là del pathos, nella allocuzione che stiamo analizzando ci si avvale anche del logos, lo strumento retorico di ordine razionale, che, secondo Olivier Reboul, è caratterizzato dalla “attitudine a convincere grazie alla sua apparenza di logicità e al fascino del suo stile” e “concerne l’argomentazione propriamente detta del discorso” (5). È costituito perciò da ogni argomento, nel senso di prova portata a favore di una tesi, ragionamento fatto a sostegno di un’opinione.

Parliamo innanzitutto della transitività, la quale, come hanno rilevato Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “è una proprietà formale di alcune relazioni, che permette di passare dall’affermazione che una stessa relazione esiste fra i termini A e B e fra i termini B e C, alla conclusione che essa esiste fra i termini A e C: le relazioni di uguaglianza, di superiorità, di inclusione, di ascendenza, sono relazioni transitive”. Tuttavia “quando la transitività è contestabile, o la sua affermazione esige adattamenti o precisazioni, l’argomento di transitività è di struttura quasi logica. Così la massima ‘Gli amici dei nostri amici sono nostri amici’ si presenta come l’affermazione che l’amicizia, per chi proclama questa massima, è una relazione transitiva” (6).

Ne derivano le seguenti asserzioni: “Gli amici dei nostri nemici sono nostri nemici”, “I nemici dei nostri amici sono nostri nemici”, “I nemici dei nostri nemici sono nostri amici” (7).

Al principio “I nemici dei nostri amici sono nostri nemici” ci s’ispira per suscitare l’odio del popolo contro i congiurati. Effettivamente essi potrebbero essere suoi nemici, perché hanno ucciso Cesare, il quale “quando i poveri hanno pianto, ha pianto” (v. 91). Più avanti, rivolgendosi direttamente all’uditorio, l’oratore aggiunge con la preterizione (8): “Non è opportuno che sappiate quanto Cesare vi amava” (v. 141) e “È bene che non sappiate che voi siete i suoi eredi” (v. 145). Infine, invece, rivela il contenuto del testamento: “A ciascun cittadino romano egli dà, a ciascun singolo uomo, settantacinque dracme” (vv. 234-235), “E in più, vi ha lasciato tutti i suoi giardini, i pergolati e gli orti appena piantati, da questa parte del Tevere; li ha lasciati a voi e ai vostri eredi, per sempre: pubblici parchi per passeggiare dove vi va e divertirvi” (240-244).

Tale forma di transitività si attua per giustificare l’avversione dello stesso Antonio, che, a proposito di Cesare, dichiara: “Egli era mio amico, leale e giusto con me” (v. 85), “Sono un uomo semplice e rozzo, che ama il suo amico” (vv. 211-212).

In questa orazione funebre si utilizza pure la tecnica argomentativa del caso invalidante (o exemplum in contrarium), “che impedisce una generalizzazione indebita dimostrandone l’incompatibilità con quello e che indica dunque quale sia la sola direzione ammessa per la generalizzazione” (9).

Così, dopo aver ripetuto più volte l’affermazione di Bruto, per il quale “Cesare era ambizioso” (vv. 78, 86, 93), Antonio rammenta: “Alla festa dei Lupercali io gli ho offerto tre volte una corona regale, che lui tre volte ha rifiutato” (vv. 95-97) (10).

Il ricordo è introdotto con la frase “Tutti voi avete visto”. Essa richiama un luogo comune (viene definito così per la sua presenza nella memoria collettiva e per il suo frequente uso): più precisamente, quello della testimonianza oculare, con il verbo “vedere”, che può essere variamente coniugato, allo scopo di rendere più credibile il messaggio anche attraverso un “linguaggio per immagini” (è classica la formula “l’ho visto con i miei occhi”) (11).

La constatazione di Antonio, il quale coinvolge l’intero pubblico, si configura come qualcosa di oggettivo, perché riguarda atti (quelli compiuti da Cesare), in contrasto con parole (quelle pronunciate da Bruto), che appaiono la manifestazione di un’opinione personale, il risultato di una considerazione soggettiva.

Un altro tópos è quello della supposizione o dell’ipotesi, che, secondo Quintiliano (L’istituzione oratoria, V, 10, 96), consiste nel “proporre una cosa che, se fosse vera, risolverebbe la questione o aiuterebbe a risolverla”. Si trova nel seguente passaggio: “Se io fossi Bruto e Bruto Antonio, allora ci sarebbe un Antonio che vi scatenerebbe l’anima e ad ogni ferita di Cesare darebbe una lingua che muoverebbe le pietre di Roma all’insurrezione e alla rivolta” (vv. 219-223) (12).

Ancora possiamo menzionare il luogo comune della modestia affettata, cioè artificiosa, falsa. Relativamente ad essa, Ernst Robert Curtius ha spiegato: “L’oratore, all’inizio di un discorso, intende disporre gli ascoltatori alla benevolenza ed all’attenzione. Come raggiunge lo scopo? Anzitutto con una presentazione modesta; la modestia, però, deve essere sottolineata dalla persona stessa ed assume, in tal modo, un carattere affettato […] Il riconoscimento, da parte dell’oratore, della sua debolezza […], della sua scarsa preparazione […] discende dalle norme dell’oratoria forense che raccomandavano di disporre favorevolmente i giudici, norme che poi, ben presto, vennero ampiamente estese anche ad altre forme di discorsi […] Talvolta l’autore pone l’accento più sulla propria incertezza in senso generico, talaltra sul proprio eloquio insufficiente e rozzo” (13).

Bice Mortara Garavelli ha scritto che “la precettistica degli esordi conteneva minuziose elencazioni degli accorgimenti da adottare per attrarre l’attenzione dell’uditorio, per indurlo a seguire i ragionamenti nelle loro pieghe più riposte e a essere benevolo verso l’oratore”. E così, riguardo all’ultimo punto, “a un oratore prestigioso si proponeva, per esempio, di confessare la propria inadeguatezza”, ossia di ricorrere al tópos dell’affettazione di modestia, “diffusissimo in tutte le letterature e ritenuto psicologicamente efficace, nell’oratoria, perché ‘c’è un moto naturale di simpatia per chi si trovi in difficoltà’, come Quintiliano ricordava (e come sanno oggi gli esperti di comunicazioni audiovisive, che parlano di ‘identificazione’ di una certa parte del pubblico con il personaggio non troppo sicuro di sé, di fronte alle telecamere)” (14).

A simili principi si rifà evidentemente Antonio, quando afferma: “Io non vengo, amici, a rubarvi il cuore. Io non sono un oratore, come lo è Bruto, ma, come tutti voi mi conoscete, sono un uomo semplice e rozzo, che ama il suo amico; e questo lo sanno molto bene quelli che mi hanno dato licenza di parlare di lui pubblicamente. Perché non ho né ingegno, né parole, né capacità, né gesti, né espressione, né potere di discorso per smuovere le passioni degli uomini; io parlo solo come mi viene. E vi dico ciò che voi stessi sapete” (vv. 209-217).

Dalle riflessioni di Curtius e di Mortara Garavelli emerge che è possibile considerare il luogo comune della modestia affettata una forma di captatio benevolentiae. Con questa espressione latina, che significa letteralmente “conquista della benevolenza”, più in generale si indica un altro tópos, consistente nel tentativo di suscitare un atteggiamento benevolo da parte degli altri. Ciò si ottiene in due modi: l’emittente del messaggio manifesta la propria inferiorità; oppure si rivolge al ricevente con espressioni di apprezzamento.

Attraverso l’affettazione della modestia, come abbiamo visto nel passo riportato, si manifesta un tratto del temperamento del parlante: la semplicità e addirittura la rozzezza. Si ricorre, perciò, allo strumento retorico di ordine affettivo dell’ethos, ovvero “il carattere che deve assumere l’oratore per accattivarsi l’attenzione e guadagnarsi la fiducia dell’uditorio”. Infatti “quali che siano i suoi argomenti logici, essi non hanno alcun potere senza questa fiducia” (15).

Quanto appena detto dimostra che fra i vari fattori persuasivi (logos, ethos e pathos) può esistere un rapporto di complementarità.

Inoltre Antonio vuole apparire persona dotata di buon senso, equilibrio, prudenza con la seguente asserzione: “O signori, se io fossi disposto ad agitare i vostri cuori e le vostre menti alla rivolta e al furore, farei torto a Bruto e torto a Cassio, i quali, voi tutti lo sapete, sono uomini d’onore. Non farò loro torto; preferisco fare torto al morto, fare torto a me stesso e a voi, piuttosto che fare torto a siffatti uomini d’onore” (vv. 121-127).

E più avanti aggiunge: “Ho passato il segno, a parlarvene [del testamento]. Ho paura di far torto a quegli uomini d’onore i cui pugnali hanno trafitto Cesare. Lo temo davvero” (vv. 150-152); “Buoni amici, dolci amici, non fate che vi scateni a una così improvvisa fiumana di rivolta. Coloro che hanno compiuto questo atto sono uomini d’onore. Quali rancori personali essi avessero, ahimè, io non lo so, che li hanno spinti a compierlo. Sono saggi e onorevoli e vi risponderanno, non c’è dubbio, con le loro ragioni” (vv. 203-208).

In questi estratti si trovano anche le figure retoriche dell’antifrasi (“sono uomini d’onore”) e della metalepsi (“i cui pugnali hanno trafitto Cesare”). Al pari di altre ne parleremo, eventualmente, in un successivo articolo.

Guarda il monologo interpretato da Marlon Brando nel film “Giulio Cesare” del 1953 con Marlon Brando.

NOTE

(1) FLAVIA TRUPIA, “L’esavalente della retorica. Vaccinarsi da politici e hater”, in Huffington Post, 10 luglio 2017.

(2) WILLIAM SHAKESPEARE, “Giulio Cesare”, in Opere scelte, Edizione Euroclub Italia (su licenza di Garzanti Editore), 1994, atto III, scena II, pp. 331-345.

(3) M. TULLIO CICERONE, Partitiones oratoriae, paragrafo 46. Riportato in CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 536.

(4) “Dell’oratore”, in M. TULLIO CICERONE, Opere retoriche, a cura di Giuseppe Norcio, Utet, 1976.

(5) OLIVIER REBOUL, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, pp. 36, 70.

(6) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 246.

(7) OLIVIER REBOUL, op. cit., p. 209.

(8) La preterizione è la figura retorica che consiste nel dichiarare di voler tacere o di non poter dire ciò che in realtà si afferma, sebbene brevemente, dandogli così maggiore rilievo.

(9) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 386.

(10) Al giorno d’oggi è abbastanza frequente nell’azione politica adottare tale argomento come strategia per ottenere un “effetto defusing”, ovvero per eliminare un tratto d’immagine negativo.

(11) La parola “luoghi” è la traduzione del termine greco tópoi (plurale di tópos), che indicava originariamente le sedi dove sono conservati questi elementi dell’argomentazione.

(12) Bice Mortara Garavelli ha classificato questo tópos pure come “luogo degli exempla ficta, e di osservazioni del tipo: ‘Se questi… potessero parlare, direbbero…’” (BICE MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Bompiani, 1991, p. 87. Espressioni della lingua italiana, corrispondenti al latino exempla ficta, sono: “esempi fittizi”, “casi immaginari”).

(13) ERNST ROBERT CURTIUS, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, 1992, p. 97.

(14) BICE MORTARA GARAVELLI, op. cit., pp. 65-66.

(15) OLIVIER REBOUL, op. cit., pp. 21 e 69.