I politici giocano a sembrare persone “normali”. Dietro c’è una strategia retorica
Attualmente, sempre più spesso, gli esperti di comunicazione usano l’espressione “identità verbale”. Essa è riconducibile al concetto di ethos oratorio, analizzato fin dall’antichità dai più autorevoli studiosi della retorica, quali furono Aristotele, Cicerone, Quintiliano. “Si riassume – ce lo ricordano Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca – nell’impressione che l’oratore dà di se stesso per mezzo di ciò che dice” (1). In presenza di autodescrizioni e autonarrazioni, abbiamo l’ethos puro e semplice (2).
Qualche volta chi svolge attività politica punta ad apparire un common man. Il fenomeno si verifica specialmente nell’imminenza delle elezioni, perché si vuole attuare un processo d’identificazione con la maggior parte dell’elettorato, formata da persone normali. A tal fine si ricorre a un registro familiare, colloquiale, quotidiano, costituito da modi di dire, che frequentemente contengono la metafora e la similitudine. Così è stato durante la campagna elettorale, particolarmente combattuta, del 1996. Lo attestano occorrenze ricavate da affermazioni di esponenti degli opposti schieramenti.
Romano Prodi (riferendosi al suo programma): “È tutta farina del mio sacco” (Corriere della Sera, 23 marzo 1996, p. 6).
Walter Veltroni: “Nel complesso e delicato terreno delle riforme costituzionali, il Polo si è mosso come un elefante in una cristalleria” (Corriere della Sera, 23 febbraio 1996, p. 2).
Rosi Bindi (relativamente alla presenza dei cattolici nelle liste del centrodestra): “Trovare un candidato del CCD o del CDU nel maggioritario è come cercare un ago nel pagliaio” (Corriere della Sera, 9 aprile 1996, p. 3).
Umberto Bossi: “Dini e D’Alema cercano […] di rastrellare i voti del Carroccio, ma faranno un buco nell’acqua” (Corriere della Sera, 27 febbraio 1996, p. 7).
Silvio Berlusconi: “Lo Stato deve aiutare chi lavora e intraprende, invece di mettergli i bastoni fiscali fra le ruote” (La Repubblica, 5 marzo 1996, p. 6). Da notare la maggiore consistenza data alla locuzione mediante l’inserimento di un aggettivo qualificativo.
Gianfranco Fini utilizzò un proverbio: “È Dini a dover dimostrare che la dichiarata neutralità del governo non è solo una buona intenzione. Perché di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno” (Corriere della Sera, 3 marzo 1996, p. 4).
Mario Segni ne rielaborò uno differente: “La promessa di abbassare le tasse e insieme di aiutare il Sud è come pretendere la botte piena e la moglie ubriaca” (Corriere della Sera, 12 marzo 1996, p. 2).
Olivier Reboul impiega in generale il termine “formula” per indicare pure l’adagio, la massima, lo slogan e sostiene che “trae autorità dall’anonimato”, giacché “non è il pensiero di qualcuno; è la verità di tutti”. Inoltre la considera “un argomento condensato reso perentorio dalla forma, dalla concisione, dalla riuscita stilistica. Tutto ciò che è possibile fare è opporgli un’altra formula” (3).
Per di più è necessario discorrere in maniera semplice per essere meglio compresi. Silvio Berlusconi rivendicò una simile capacità quale sua prerogativa: “Io non rinuncio alle mie immagini e al mio stile. Vi dovrete abituare a un linguaggio diverso da quello delle ‘convergenze parallele’ e degli ‘equilibri più avanzati’” (Corriere della Sera, 28 luglio 1995, p. 4).
Vale, perfino per spiegare il consenso ottenuto dal fondatore di Forza Italia, un’osservazione di Mark Thompson su una più recente esperienza americana: “Il fascino di Donald Trump come candidato alla presidenza dipendeva in gran parte dalla convinzione che fosse uno che diceva la verità e non avrebbe mai avuto nulla a che fare con il linguaggio politico convenzionale”. Effettivamente “uno dei vantaggi di questo modo di porsi è che l’ascoltatore, una volta convinto che non stai cercando di fregarlo alla maniera classica dei politici normali, può disattivare le facoltà critiche che di solito applica ai discorsi politici e perdonarti qualsiasi esagerazione, contraddizione o frase offensiva. E se i rivali appartenenti al sistema o i media ti criticano, i tuoi sostenitori lo snobberanno, ritenendola propaganda” (4).
Secondo Riccardo Gualdo, “tra le forme della semplicità possiamo raggruppare […] l’aggressività verbale”. Addirittura “viene legittimato anche l’uso di espressioni triviali, una novità del linguaggio politico italiano” (5).
Al riguardo, in un servizio giornalistico si legge: “È un Silvio Berlusconi più scatenato che mai quello che indossa i panni di ‘professore’ alla scuola di formazione politica voluta da Roberto Formigoni. Un Berlusconi che non esita a colorire il discorso di parolacce per bersagliare (non soltanto) i nemici: se di Margaret Thatcher l’ex premier si sarebbe meglio ricordato ‘se fosse stata una bella gnocca’, di Prodi Berlusconi cita le ‘stronzate’. Quanto al governatore sardo Renato Soru, ‘è sempre incazzato. Si guarda allo specchio e la giornata è rovinata’”. Riferendosi all’allora presidente del Consiglio, Berlusconi affermò: “‘Prima delle elezioni ho potuto incontrare il mio avversario soltanto due volte e con soli due minuti e mezzo per rispondere alle domande del giornalista e alle stronzate che diceva Prodi’” (6).
Nella stessa pagina un commentatore chiarì l’episodio: “Con volgarità calcolata, un Silvio Berlusconi vestito da dilettante del potere ha insultato Romano Prodi”. Infatti, “le sue parole grevi nei confronti di Prodi non vanno lette come maldestre improvvisazioni. Sono parte di una strategia che punta a strapazzare la sinistra al potere, accarezzando il linguaggio becero dell’antipolitica: un gioco vecchio, ma che l’ex premier evidentemente ritiene sempre pagante” (7).
Successivamente, intervenendo alla Tv della Libertà, Berlusconi specificò: “Sono un comunicatore e se devo parlare con i ragazzi uso il loro linguaggio, così come faccio negli spogliatori con i calciatori” (In Corriere della Sera, 5 luglio 2007, p. 11).
Il notista già menzionato evidenziò la strategia berlusconiana “calibrata e tesa a trovare la sintonia con i segmenti del Paese più lontani e delusi dal governo; e più liquidatori nei confronti di tutto ciò che odora di classe dirigente” (8).
Un vero e proprio prontuario di adagi, attinti dal registro informale, familiare, colloquiale, è l’elocuzione di Bettino Craxi. Grazie a un lavoro da certosino, Paola Desideri ha realizzato un’esauriente rassegna, che in parte riportiamo. L’autrice l’ha completata con un’interessante analisi, nella quale si rileva, tra l’altro, “una precisa volontà di evitare i toni aulici e affettati di certa oratoria politica”, sfruttando le “risorse interazionali del proverbio, del modo di dire, della frase fatta, del parlato e della lingua quotidiana”, miranti “a creare o a confermare la comunione con l’uditorio” (9).
Ecco una panoramica:
“Abbiamo potuto salutare la conclusione di un faticosissimo negoziato. Dice un proverbio di casa mia: ‘Tutto è bene quel che finisce bene’”
“Tutti ricordano i non pochi casi di amici che nel vivo dello scontro elettorale si sono comportati nel modo previsto dal motto ‘dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io’”
“Vale, non c’è dubbio, l’esigenza di una maggiore intesa degli europei, ma non meno il detto antico ‘aiutati che Dio ti aiuta’”
“Pur ritenendo giusta l’osservazione che il carro non va messo davanti ai buoi, essendo il programma il carro e i buoi le garanzie per la sua realizzazione, abbiamo esaminato diverse ipotesi tra le non molte disponibili e realistiche”
“Non so se l’idea concepita in un laboratorio antisocialista era destinata a realizzarsi e a fare strada. Per parte mia, non credo. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”
“I nodi sono venuti al pettine tutti insieme, ma non possono essere risolti in blocco”
“Tutti i nodi verranno rapidamente al pettine ed allora occorrerà scioglierli”
“Condivido pienamente le opinioni che sono state espresse secondo cui non dobbiamo stare alla finestra, non assumiamo un atteggiamento passivo, non mangiamo la minestra che ci passa il convento”
“Eravamo negli scorsi anni, diciamo il fanalino di coda, rispetto ai paesi nella lista dei paesi donatori”
“Il governo che ho l’onore di presiedere è nato e si è formato in un momento particolarmente critico della nostra vita economica. Un’alta inflazione, una stagnazione produttiva, un deficit pubblico che andava a rotta di collo, un’alta conflittualità sociale, una disoccupazione crescente. Risanare, riattivare, produrre, sviluppare: questa è stata sin dal primo momento la sfida che ci ha impegnato”
“Il negoziato ginevrino riprende il 15 settembre. Non fasciamoci la testa prima che sia rotta dagli avvenimenti; esprimiamo la fiducia nella possibilità che il negoziato decolli, agiamo in concreto perché tutti i terreni siano esplorati”
“I punti caldi si sono moltiplicati nel medio oriente, nel Sudest asiatico, in Africa, nel Mediterraneo: se si vuole rovesciare la tendenza, da qualche parte occorre pure che si cominci a gettare acqua sul fuoco”
“Non sarò certo io a mettere i bastoni tra le ruote di quelli che vogliono portare la legislatura alle sue conclusioni normali, non traumatiche”
“Noi abbiamo posto e poniamo un problema reale della democrazia […] Lo abbiamo posto noi in primo luogo non perché si sia i figli della gallina bianca, ma perché ci siamo trovati e ci troviamo in una posizione parlamentare di responsabilità determinante”
“Noi sosterremo il governo in un compito che è certamente difficile, convinti della necessità di far tornare troppi conti che non tornano e ben sapendo che i conti non si pagano con la demagogia”.
Ulteriori affermazioni del leader socialista erano incentrate sulle locuzioni: “fare più danno della grandine”, “dare un colpo al cerchio e uno alla botte”, “non stare né in cielo né in terra”, “pagare in moneta bucata”, “prendere la palla al balzo”, “cambiare le carte in tavola”, “da che pulpito viene la predica!”, “portare acqua al mulino”, “non poter cavare succo d’arancia da un limone”, “gettare benzina sul fuoco”, “piangere miseria per non pagare il dazio”, “predicare bene e razzolare male”, “prendere lucciole per lanterne”, “cavalcare la tigre”, “lisciare il pelo”, “finire a gambe all’aria” (10).
Attraverso l’utilizzazione di qualsiasi forma di prossimità di linguaggio con il destinatario del messaggio, l’uomo politico persegue l’obiettivo della veridizione, che è funzionale all’istituzione di un rapporto fiduciario. Però, più semplicemente, per produrre un effetto veridittivo è sufficiente inserire nel discorso la parola “verità”. Ciò accadde in due interventi televisivi, fatti da Marco Pannella nel luglio del 1974 e da Lucio Libertini nell’ottobre del 1980. Quando, dopo un lungo digiuno di protesta, poté finalmente apparire sul piccolo schermo, il leader radicale disse subito: “Sono qui per fare opera di verità, cosa che nella televisione italiana in genere non si fa”. E il dirigente comunista, in una Tribuna Politica Flash, al termine di una dura vertenza sindacale alla Fiat, esordì così: “Qualche minuto di verità tra troppe menzogne” (11).
Alla formula “la verità è che…” ricorreva spesso Bettino Craxi:
“La verità è che il moto di resistenza si estende all’interno del paese e in campo internazionale”
“Istituzioni imbalsamate e burocratizzate languono e deperiscono. Si levano di tanto in tanto voci e mugugni verso presunti sconfinamenti presidenzialisti. La verità è che ad uno spirito libero ed indipendente, dovunque esso si trovi, sarà sempre difficile adattare un corsetto di conformismo e di indifferenza”
“Semmai l’osservazione da fare è che si è parlato forse un po’ troppo di papà e di nonni che sono importanti, che ci assistono come numi tutelari, come esempi, ma che non sempre sono in condizioni di dare le risposte che bisogna dare oggi ai problemi della società di oggi. La verità è che la strada la dobbiamo fare da soli e molte idee nuove le dobbiamo elaborare da soli”
“La verità è che in Italia tutto è difficile. Si corre sempre in salita e anche nel momento del massimo sforzo è sempre più facile trovare un sasso che una spinta” (12).
Le seguenti occorrenze si devono rispettivamente a Massimo D’Alema e a Barack Obama:
“La verità è che la destra non è la medicina, è la malattia. Va dai commercianti e dice: sì, bisogna diminuire le tasse. Va al Sud e dice: sì, bisogna aumentare la spesa sociale. Va dagli artigiani veneti e dice che nei ministeri dove ci sono dieci impiegati ne bastano tre. Va davanti ai ministeri e dice che il lavoro non si tocca. Questo fa la destra […] punta a solleticare tutte le spinte particolaristiche” (La Repubblica, 20 marzo 1996, p. 4).
“Al senatore McCain piace tanto parlare di saggezza, ma diciamoci la verità: che ne è della tua saggezza se nel novanta per cento dei casi concordi con George Bush? Non so voi, ma a me non sta bene accontentarmi di un dieci per cento di possibilità di cambiamento. La verità è che, su ogni questione in grado di fare la differenza per la vostra vita – la sanità, l’istruzione, l’economia –, il senatore McCain è stato tutto meno che indipendente” (13).
Note
(1) Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, p. 346.
(2) Su quest’ultimo si vedano gli articoli: “Ethos e personalizzazione nelle elezioni del 1996”, “Una figura dell’ethos: la concessione”, “Una forma di ethos: anche i politici hanno famiglia”, pubblicati rispettivamente il 28 marzo 2020, il 1° settembre 2020 e il 18 novembre 2020.
(3) Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, p. 196.
(4) Mark Thompson, La fine del dibattito pubblico. Come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia, Feltrinelli, 2017, p. 37.
(5) Riccardo Gualdo, “La comunicazione politica: novità e continuità”, in Riccardo Gualdo, M. Vittoria Dell’Anna, La faconda Repubblica. La lingua della politica in Italia (1992-2004), Manni, 2004.
(6) Marco Cremonesi, “Berlusconi insulta Prodi, l’Unione protesta”, in Corriere della Sera, 3 luglio 2007, p. 15.
(7) Massimo Franco, “Un insulto calcolato pensando alle urne”, in Corriere della Sera, 3 luglio 2007, p. 15.
(8) Massimo Franco, “L’ex premier cavalca l’onda dell’antipolitica”, in Corriere della Sera, 5 luglio 2007, p. 11.
(9) Paola Desideri, Il potere della parola. Il linguaggio politico di Bettino Craxi, Marsilio, 1987, pp. 127 e 128.
(10) Paola Desideri, op. cit., capitolo 6. “Il sermo cotidianus: dal proverbio alla metafora”.
(11) In Carlo Marletti, Media e politica, Franco Angeli, 1984, p. 95 e in Paolo Mancini, “Strategie del discorso politico”, in Problemi dell’informazione, 1981, n. 2, p. 213.
(12) In Paola Desideri, op. cit., pp. 101-102.
(13) Barack Obama, La promessa americana. Discorsi per la presidenza, Donzelli, 2008, pp. 168.
Foto: “Donald Trump” by Gage Skidmore is licensed under CC BY-SA 2.0