Una forma di ossimoro: il tòpos dell’innovazione nella tradizione

 

di Giorgio Matza

Un argomento (nel senso di prova portata a favore di una tesi, ragionamento fatto a sostegno di un’opinione) viene definito luogo comune, quando se ne fa un frequente uso, in quanto risponde a opinioni diffuse. La parola “luogo” è la traduzione del termine greco tópos. Il plurale tópoi indicava originariamente le sedi, dove sono conservati tali elementi dell’argomentazione. Ancora oggi ci si riferisce alla loro presenza nella memoria collettiva.

Quello dell’innovazione nella tradizione, con il quale si cerca di accordare tra loro due concetti opposti, ma di pari valore, è spesso utilizzato in pubblicità.

Recentemente vi hanno trovato ispirazione gli autori dello spot per la linea di prodotti del Mulino Bianco. Il mugnaio, protagonista della precedente campagna con il volto di Antonio Banderas, esce di scena. Tuttavia c’è chi continuerà la sua opera. Infatti una voce fuori campo racconta: “Un padre, che ha deciso di puntare sulla figlia, una figlia con la stessa vocazione e idee tutte sue”, mentre scorrono le immagini di un abbraccio fra i due a sancire il passaggio del testimone. Alla ragazza si affianca il fidanzato, presentato dallo speaker come “un uomo giovane con un sapere antico, un’appassionata ricerca di semplicità in natura” (1).

Qualche parola chiave evidenzia l’interazione fra novità (“idee tutte sue”, “uomo giovane”) e consuetudine (“stessa vocazione”, “sapere antico”).

Al meccanismo argomentativo di cui stiamo trattando, si ricorre pure nella comunicazione politica. Ecco alcuni estratti da interventi, rispettivamente, di Bettino Craxi, Carlo Azeglio Ciampi, Walter Veltroni:

“Il lavoro del Partito deve continuare con coerenza portando avanti il processo di rinnovamento: anzi, come anch’io preferisco dire, del rinnovamento nella continuità” (Congresso del Partito Socialista Italiano, Torino, 2 aprile 1978).

“Sta a noi far sì che questo periodo di transizione costituisca il momento della svolta che il Paese vuole, esige. Svolta che non significa muovere verso l’ignoto, né rinnegare tutto quanto è stato fatto in passato, ma significa mirare ad obiettivi più avanzati, a nuove frontiere, confermando quanto di positivo c’è nel nostro passato, scrollandoci di dosso ciò che nel passato vi è stato di deteriore. Continuità e discontinuità: è una contraddizione, ma una contraddizione feconda” (Discorso di replica da presidente del Consiglio incaricato, prima del voto di fiducia, riportato in la Repubblica, 8 maggio 1993, p. 3).

“Gli italiani […] vogliono […] cinque anni di stabilità e cambiamento” (Riportato in Corriere della Sera, 23 febbraio 1996, p. 3).

Anche Silvio Berlusconi impiegò un simile tópos. Per riprendere un’osservazione dei semiologi Michela Deni e Francesco Marsciani, “da una parte […] chiede fiducia al popolo italiano […] perché è un ‘uomo nuovo’; dall’altra le ragioni della fiducia che chiede risiedono proprio nel suo trascorso professionale, nell’efficienza, competitività e successo che ha dimostrato (necessariamente nel passato). L’articolazione tra questi due corni dell’argomentazione è resa possibile dall’innesto sulla categoria del ‘vecchio/nuovo’ di quella distinta di ‘politico/non politico’, in maniera tale per cui si condanna la vecchia politica, ma non chi nel passato ha dato prova di competenza professionale ‘non-politica’ e contemporaneamente si valorizza la novità di una gestione della cosa pubblica basata su questa competenza che, proprio perché vecchia e usata, può fungere da garanzia”. Tutto ciò “è dunque funzionale a effetti di senso che potremmo riassumere nella formula ‘continuità e innovazione’” (2).

Il seguente passo contiene un esempio in proposito: “Noi invece siamo una forza nuova. Non abbiamo responsabilità per quanto riguarda il passato. Abbiamo ottenuto successi e acquisito esperienza lavorando nell’area delle aziende private” (3).

Per riassumere la propria politica con una definizione, spesso, ha rilevato Enrico Brivio, pure i Presidenti degli Stati Uniti cercano di coniugare ansia di rinnovamento e attaccamento alle radici, associando l’aggettivo “nuovo” ad un ter­mine che richiama un valore tradizionale, come la libertà, il federalismo ecc. (4).

Relativamente all’esperienza americana, è utile riportare i seguenti estratti dall’autobiografia di Bill Clinton:

“Grazie alle campagne per Duffey e McGovern […] avevo anche constatato di nuovo che per vincere le elezioni come progressista occorre una grande attenzione e disciplina nella messa a punto e nella presentazione di un messaggio e di un programma che diano alla gente fiducia nella possibilità di cambiare. La nostra società può assorbire solo una quantità limitata di innovazione in un determinato tempo e quando spingiamo per cambiare dobbiamo farlo in modo da ribadire i nostri valori più profondi: opportunità di progresso e responsabilità, lavoro e famiglia, forza e compassione, i valori che sono da sempre i pilastri del successo dell’America. La maggior parte delle persone sono occupatissime a crescere i figli, lavorare e pagare le bollette. Non stanno a pensare sempre alla politica del governo come fanno i liberal, né sono ossessionati dal potere come i neoconservatori di destra. Hanno molto buon senso e desiderano comprendere le forze potenti che plasmano le loro vite, ma non ci si può aspettare che abbandonino i valori e l’organizzazione sociale che perlomeno permettono loro di sopravvivere e sentirsi in pace con la loro coscienza. Dal 1968 in poi i conservatori sono riusciti a far credere ai ceti medi americani che i candidati progressisti e le loro idee politiche sono estranee ai loro valori e minaccino la loro sicurezza”

“[Newt Gingrich] promise di riportarci alla moralità degli anni Cinquanta, per ‘rinnovare la civiltà americana’”

“Avevo sempre cercato la sintesi tra nuove idee e valori tradizionali, nel tentativo di mutare la politica del governo secondo il mutare delle circostanze” (5).

È possibile considerare il luogo comune del “mutamento nella continuità” come una tra le più valide scorciatoie informative. Esse – hanno scritto Cristian Vaccari e Patrick Colgan, citando anche S. Popkin e M.A. Dimock – “si basano su ‘informazioni che possono essere facilmente ottenute ed utilizzate e che fungono da sostituti di seconda scelta di altri tipi di dati, più inaccessibili’”. Più precisamente, nel caso specifico, l’uomo politico cerca di avere un consenso generalizzato, appellandosi sia alla soddisfazione di una parte della gente sia al malcontento dell’altra, cioè sfruttando “il giudizio che l’elettore dà sulle proprie condizioni di vita e la conseguente scelta tra conservazione e cambiamento” (6).

Il tópos dell’innovazione nella tradizione costituisce una forma di ossimoro, la figura retorica consistente in una sorta di antitesi, ossia nell’unione di due parole di senso opposto e che perciò sembrano escludersi reciprocamente. Per Pierre Fontanier, combinando “idee e parole ordinariamente opposte e tra loro contraddittorie”, si produce “il senso più vero, perché più profondo e incisivo” (7).

Nel 1981 divenne famoso lo slogan “la forza tranquilla”, inventato da Jacques Séguéla per François Mitterand, il candidato socialista alla Presidenza della Repubblica francese, nell’ambito di una incisiva campagna che ne favorì la vittoria (8).

Il procedimento stilistico in questione si trova pure nel seguente racconto di Massimo D’Alema, allora vice-segretario del Partito della sinistra: <Molte coscienze si cominciavano a ribellare, gridavano a gran voce che era giunta l’ora di cambiare. Per tutta risposta iniziò l’escalation del terrore che culminò con piazza Fontana. Una bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura per creare quella che io definisco una destabilizzazione stabilizzante> (9).

Un interessante esempio riguardò il Partito comunista italiano, che fu denominato “di lotta e di governo”. Come ha osservato Piero Trupia, “un senso profondo, di prospettiva strategica, potrebbe essere: il Pci non cesserà di lottare anche quando e anche se starà al governo”. Infatti “la lotta è per questo partito non soltanto una via verso il governo, ma anche un modo di governare. Un governare intensamente politico che si troverà ad affrontare problemi e contrastare forze anche stando al governo” (10).

Altrettanto efficace fu la formula delle “convergenze parallele”, che, secondo Piero Trupia, si rivelò particolarmente utile per “mostrare come una espressione figurata può svolgere una complessa e fine funzione referenziale; come essa può esprimere ed imporre all’attenzione e alla memoria collettiva un articolato discorso che copre un intero periodo della nostra storia politica: i decenni ’60-’70 e oltre” (11).

NOTE

(1) “Mulino Bianco – Spot 2017 – Trailer 30s – YouTube”. Il telecomunicato è stato ideato dall’Agenzia J.Walter Thompson Milano: Sergio Rodriguez (Ceo & Chief Creative Officer), Nicoletta Cernuto (DCA e copywriter), Maria Piccinini, Paola Lanzani (Art Director), Vera Daidone (Copywriter). La regia è di Emanuele Crialese. I nuovi personaggi sono interpretati da Nicole Grimaudo e Giorgio Pasotti.

(2) MICHELA DENI, FRANCESCO MARSCIANI, “Analisi del primo discorso di Berlusconi. Indagine semiotica sul funzionamento discorsivo”, in MARINO LIVOLSI, UGO VOLLI ( a cura di), La comunicazione politica tra prima e seconda repubblica, Franco Angeli, 1995, p. 229.

(3) Riportato in Gente, 18 aprile 1996, p. 7.

(4) ENRICO BRIVIO, Come comunica la Casa Bianca, Bridge, 1992, p. 157.

(5) BILL CLINTON, My Life, Mondadori, 2004, pp. 211-212, 683, 711.

(6) CRISTIAN VACCARI, PATRICK COLGAN, Le elezioni regionali 2000 fra amministrazione locale e politica nazionale, p. 43, in sito web.

(7) PIERRE FONTANIER, Les figures du discours, 1977, p. 137, citato in BICE MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Bompiani, 1991, p. 246.

(8) In un suo libro (Eltsin lava più bianco. Un mago della pubblicità al servizio degli uomini politici, Sonzogno, 1992), il pubblicitario scrisse la seguente dedica per il presidente: “A François Mitterand, che ha fatto più pubblicità a me di quanto io ne abbia fatta a lui”.

(9) Riportato in Corriere della Sera, 28 maggio 1993, p. 5.

(10) PIERO TRUPIA, Logica e linguaggio della politica, Angeli, 1986, p. 225.

(11) PIERO TRUPIA, op. cit., p. 227.